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Socializzazione: Nicola Bombacci parla ai lavoratori

| Domenica 3 Giugno 2007 - 15:35 | Lorenzo Chialastri |



Il tempo che passa non sempre allontana la verità, a volte è necessario un transitorio per far diradare i fumi dell’illusione, dopo di questo viene il tempo delle domande e della maièutica.
Tutti quelli che ebbero il coraggio di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, alla fine di tutto furono chiamati rispondere a caro prezzo della loro scelta. Ma di questi, per quelli che colsero le ragioni intime di quei “seicento giorni”, il calice amaro non coincise soltanto con la sconfitta, o con lo scempio di piazzale Loreto, ma con l’estinzione completa delle “Leggi sulla Socializzazione”. La cosa peggiore e tragica malgrado tutto non fu la fine di Salò, ma la fine di quella che Enrico Landolfi aveva chiamato “la Rossa Salò”.
Da qui parte la restaurazione capitalistica, che come storicamente avviene ha sempre le sue guardie bianche. Subito lievita una grave prima anomalia che caratterizzerà tutta la vita politica a venire dal dopo guerra in poi: le guardie bianche vestivano una casacca rossa.
Certo è che il partito comunista non poteva salvare il fascismo dopo tutto quello che c’era stato, ma il fascismo nella sua totalità di regime non coincise con la socializzazione, salvare la socializzazione non avrebbe coinciso con il salvare il fascismo. Ma allora perché i “cugini hegeliani”, ovvero i comunisti, chiamati da Giovanni Gentile anche “corporativisti impazienti”, non risparmiarono niente della socializzazione?
Si potrebbe pensare, ma troppo semplice sarebbe, che nell’euforia antifascista ci fosse la necessità d’azzerare tutto quello che sapeva di fascismo, come richiedeva certa furia partigiana. Ma allora perché Palmiro Togliatti cercò l’amnistia per i fascisti?
I comunisti da sempre, almeno quelli di un tempo, ora non se ne vedono, erano studiosi e osservatori attenti, sapevano credere e soffrire, ma erano anche zelantemente obbedienti nei confronti di chi riteneva di possedere il dogma dottrinale. Perché affossare i principi che avrebbero portato gli operai ad essere padroni delle proprie fabbriche? La Socializzazione potrebbe aver spaventato i sacerdoti del socialismo scientifico, facendo inorridire scribi e farisei quasi fosse l’effetto del cristianesimo nei confronti dell’ebraismo?
Oppure la Socializzazione, se mantenuta pur depurata da ogni ricordo mussoliniano, avrebbe potuto trasformare l’Italia in un paese Socialista? Questo non sarebbe mai stato tollerato, quest’ultima ipotesi avrebbe fatto saltare gli equilibri internazionali imposti dalla spartizione di Yalta, sottraendo l’Italia dal controllo americano. Conseguenza: la Socializzazione andava rimossa, in ogni senso, pratico e di pensiero, e in questo, ecco la seconda anomalia, contribuirono i movimenti che furono definiti neofascismi, quelli che si richiamavano ad una continuità ideale. Tutti sappiamo, perché siamo grandi abbastanza, e smaliziati al punto giusto, che nel sistema denominato “continuità ideale” troviamo di tutto , dal Concordato, alle battaglie contro il divorzio, alla reazione, al nostalgismo fine a se stesso, alla Nato, alla lotta ai rossi, tutto fuorché quello che meritava di esserci. Ma allora l’archetipo di fascismo costruito dal neofascismo non finì per identificarsi nello stereotipo voluto dall’antifascismo? Tutto allontanava dalla possibile, praticabile, via chiamata socializzazione.
Per definizione al termine anomalia corrisponde un’irregolarità, un allontanamento da un percorso tipico, ma delle due anomalie nominate, quella delle guardie rosse che si fanno per l’occasione bianche, e degli artificieri delle “mine sociali” per capirci, è mai possibile che siano spiegabili come una bizzarria di eventi improbabili che guarda caso, visto poi i risultati, sono pure coincidenti? Non sarebbe opportuno pensare a qualche fattore esterno che ha catalizzato gli eventi nel verso a lui più gradito?
Se abbiamo voglia di farci delle domande, sia chiaro questo come principio fondamentale, non è certo perché si voglia disseppellire il fascismo. Il fascismo fu un fenomeno unico e irripetibile e quindi impensabile una sua riproduzione, così come un abbraccio integrale. Farlo sarebbe anacronistico, lasciamo a chi visse quei giorni la possibilità di raccontarci e tramandarci le emozioni e le intensità delle loro ragioni, ci parlino di El Alamein, della “battaglia di Anzio” e del guerriero colto di Firenze che mai s’arrese. Ma non offendiamoli, non cadiamo nella farsa, e non inganniamo noi stessi nel voler cercare un mago che mai verrà capace di riportare indietro le lancette del tempo. Nostro compito è capire la sostanza, l’anima, ovvero l’idea, e questa è innanzi a noi non dietro. Quest’idea si chiama Socialismo e Patria.
Ottobre 1944, teatro di Brescia, Nicolino Bombacci, già fondatore del partito comunista italiano e amico di Lenin, parla ai lavoratori riuniti senza distinzione e anche senza tessera, si discute delle “Leggi sulla Socializzazione”, ovvero “tutto il potere a tutto il lavoro”, che significa il potere a chi lavoro e non allo Stato padrone o al padrone capitalista, la traccia della conferenza, così come quella delle successive sarà: “Il capitale al servizio del lavoro e non il lavoro al servizio del capitale,… l’utile al servizio dell’uomo e non l’uomo a servizio dell’utile”.
Immaginiamo ora una platea composta di ragazzi precari di un call-center, d’operai di “tute arancione”, di quelli che vivono isolati in container lontano dalle famiglie per mesi, di lavoratori riconvertiti tre o quattro volte che non sanno neanche più che lavoro fanno, le parole di Bombacci avrebbero ancora un senso?
Sono passati più di sessanta anni, ma la restaurazione capitalistica ha reso, nonostante il tempo, il tema ancora più pertinente ed attuale.
Un’attività che contraddistingue l’uomo da ogni altro essere vivente è il lavoro, quando questo è svolto consapevolmente per perseguire un fine condiviso. Altrimenti ci sono animali che lavorano, così come uomini che lavorano per altri uomini, senza alcuna partecipazione emotiva, ma questi sono spesso schiavi o utensili viventi. In questo caso il lavoro cessa di essere una peculiarità umana, difatti sfugge ad ogni coinvolgimento delle sue qualità, come se all’uomo non fosse richiesto che l’indispensabile per essere sfruttato, rinunci pure alla sua anima razionale, e si nutri essenzialmente della sua anima irascibile e concupiscibile, a queste due porzioni di uomo basta la nutrizione del consumismo, non sono richieste virtù, solo specifiche, piccole, conoscenze, un salario, quando c’è, può essere più che sufficiente come ricompensa. Altro che “Consigli di Gestione” e ripartizione degli utili, non è richiesto neanche di pensare, al massimo si deve imparare ad aspettare con pazienza in una rimessa attrezzi chiamata lista d’attesa, e lì maturare il proprio senso di inadeguatezza di fronte alla grande macchina chiamata necessità di mercato, rafforzando la nostra alienazione nell’ultimo centro commerciale, guardando attraverso un vetro, le nuovissime, strabilianti invenzioni tecnologiche. L’attuale società a conduzione esclusivamente capitalistica ha divaricato la distanza esistente tra lavoro e capitale. Tenendo presente l’evoluzione del capitale così come del padrone, che sfuggono oramai ad una connotazione tradizionale essendosi mascherate, sublimate, nella direzione finanziaria, s’afferma che anche il lavoro è cambiato e che non è più quello dei tempi della rivoluzione industriale, questo è vero ma è allo stesso tempo vero che il lavoro è stato spinto all’estremo opposto del suo senso nobile ed etico, estremo che seguita a coincidere al lavoro-merce. Da tale prospettiva, morale e umanistica, la condizione del lavoro non è cambiata rispetto al salariato dell’ottocento o dello schiavo. L’uomo lavoratore seguita a non avere una sua adeguata collocazione, anzi spesso non ha neanche un lavoro ed è costretto a mendicarlo, su questo si fonda il nuovo sfruttamento e l’impossibilità partecipativa del lavoratore nel posto di lavoro.
Ma la restaurazione capitalistica, che ha pretese globali, ha un valore veramente irreversibile come si vuole far credere? Il lavoro ha per questa società un valore? Il suo valore è rapportato alla sola capacità di sfruttamento e parcellizzazione dell’uomo o esiste un progetto serio che va verso la sua elevazione armonica e sociale? C’è qualcuno, di quelli che contano qualcosa, che voglia promuovere la “Democrazia del Lavoro”?
Se con coscienza vogliamo rispondere a queste domande, credo sia necessario pretendere un capovolgimento dei valori così come questa società c’è l’ha posti. Ha indubbiamente ragione Hugo Chàvez nell’affermare che abbiamo bisogno di un grande atto sovversivo, ovvero una capacità di ribaltamento completa, in grado di riportare il Lavoro al centro dell’attività umana nel senso di peculiarità e sotto il segno della giustizia sociale, così come i popoli tornano a riappropriarsi dei loro destini e delle proprie ricchezze. Ancora per dirla nella lingua del presidente venezuelano: “Un mundo mejor es posible, si es socialista”, e a questo a scanso di equivoci, aggiungiamo soltanto che la via praticabile del socialismo è la Socializzazione.
Nicola Bombacci dovrebbe tornare tra gli operai anche da noi quando avrà finito in america latina. Nel frattempo seguitiamo a farci domande, alla fine ci troveremo pronti e più sovversivi di quello che pensavamo.

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