Ad un orecchio profano la notizia può anche sfuggire, ma la decisione della banca centrale cinese di alzare di 50 punti base il coefficiente di riserva obbligatoria (RO) delle banche a partire dal prossimo 25 aprile non è cosa da poco. La modifica del coefficiente di riserva obbligatoria, cioè della percentuale da applicare sulla base della riserva, è infatti uno strumento di politica monetaria che induce una modifica inversa nella quantità di denaro di cui le varie banche dispongono nelle varie forme, con conseguente riduzione della base monetaria complessiva. Il provvedimento, a ben vedere il sedicesimo dalla metà del 2006 e il terzo dall’inizio dell’anno, in questo caso alza la riserva che le banche private cinesi sono obbligate a versare presso la banca centrale al livello record del 16%, valore quasi doppio rispetto a quello previsto a fine 2006. Con questa misura, Pechino attua in concreto una politica restrittiva della crescita, inducendo una contrazione delle risorse disponibili per gli impieghi creditizi nel mercato bancario: la liquidità generata dallo straordinario surplus commerciale della Cina, infatti, non viene così interamente indirizzata interamente al finanziamento di progetti d’investimento e si evita l’accumulazione di eccessi di capacità produttiva. Il tasso d’investimento nel Drago cinese, infatti, dal 2003 ad oggi è cresciuto ad un ritmo del 25% l’anno, quasi il triplo di quello dell’economia, con la conseguenza di rendere probabile una caduta dei profitti - indesiderata al governo di Pechino - e una conseguente deflazione, che a causa dei crediti in sofferenza ed inesigibili, potrebbe destabilizzare l’intero sistema bancario. A spingere la People’s Bank of China al rialzo della riserva obbligatoria è stata infatti la necessità di garantire un aumento più contenuto della moneta in circolazione e un miglioramento della qualità del credito, cercando così di contenere l’eccessivo tasso di crescita del Pil e le conseguenti pressioni inflazionistiche sui prezzi interni che, nel tempo, potrebbero ridurre la competitività delle merci cinesi anche sui mercati esteri. La locomotiva cinese, secondo gli ultimi dati diffusi ieri a Pechino, pur essendo cresciuta meno rispetto al più 11,2% del quarto trimestre 2007, nel periodo gennaio-marzo 2008 ha infatti accelerato per il nono trimestre consecutivo oltre le aspettative, facendo segnare una crescita del Pil del 10,6% contro il 10,4% atteso. Tale aumento ha fatto schizzare l’indice dei prezzi al consumo di marzo a più 8,3%, un tasso di inflazione che, come ha sottolineato l’Ufficio Centrale di Statistica di Pechino, è il più alto mai registrato negli ultimi undici anni dal Drago cinese. Questo continuo “stringere di cinghia” da parte del Gigante asiatico, pertanto, non può comunque non essere accolto con soddisfazione, riflettendo fenomeni tali della sua economia in grado di cambiare nel lungo periodo, tramite i tassi di cambio, gli equilibri commerciali e di forza dei diversi Paesi. Nel breve però, tale strategia di incremento del coefficiente di riserva potrebbe tornar utile a Pechino anche per allontanare le pressioni dei Paesi occidentali per un ulteriore aumento dei tassi ufficiali di cambio della divisa cinese che allevierebbe fin da subito la pressione delle merci cinesi sui produttori occidentali e, soprattutto, europei, decisi a non imporre dazi alle merci cinesi nonostante il sistema produttivo cinese sia innegabilmente diverso e, a dir poco, inadeguato sul fronte dei diritti dei lavoratori. Una situazione che configura una sorta di dumping sociali suicidamene accettato dall’Ue in nome del libero scambio. |