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Un omaggio a Claretta Petacci

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Martedì 19 Febbraio 2008 – 13:57 – Alberto Bertotto stampa
Un omaggio a Claretta Petacci



Volgendo intorno lo sguardo supplichevole con l’ansia sospettosa di chi va incontro ad un ritrovo inaspettato, Claretta Petacci, la giovane amante di Mussolini, aveva detto, poco prima di morire, ad Asvero Gravelli: “Io vado, io voglio morire con lui” perché “dove va il padrone va il cane”. Con l’amico si era confidata dicendo che i suoi sogni turbinosi erano dominati, in quei tristi giorni (aprile 1945), da cupe larve nemiche (A. Gravelli. Mussolini aneddotico. Latinità, s.d.). Le parole che diceva erano, per chi le ascoltava, lontane come lo sono, per le profonde radici degli alberi, i sommessi sussurri delle cime. Avevano lo stesso fruscio che fanno le foglie pelose di gelso nella mano di chi le coglie o il fischio di un sasso scagliato dalla fionda.
Un bisogno iroso di farsi male la spingeva a urtare contro il muro i pugni chiusi che sollevava minacciosi verso un nemico potenziale perennemente in agguato. Nonostante ciò, tra i terrori, le lugubri malinconie e le lassità mentali, aveva intervalli di infinita dolcezza. In quel mentre, curva, attendeva che le sue lunghe ciglia ripalpitassero di nuovo. Provava il rancore dei forti che patiscono la vergogna ed il tremito dei vergini virgulti quando sono oppressi dalla turpe menzogna. Sommersa nel gelo notturno cercava la sperata pace senza trovarla.
Lo stordimento occupava la testa di Claretta ed una specie di sbigottimento ne annebbiava la volontà residua. Indugiando in timidi bamboleggiamenti d’innocenza, la sua faccia aveva assunto l’aspetto di un’effige di legno su cui era rimasta solo una lievissima traccia dell’antica doratura. In quel mentre nei polsi scarnificati i tendini vibravano come le corde di una chitarra accordata in diapente e nelle braccia pendenti s’addensava la triste attesa della fine. La voce della giovane donna risuonava nel silenzio, ora dolce, ora lugubre, ora quasi canora, ma pur sempre velata da un mesto rimpianto. Disperata, cercava di spiritualizzare fino all’apice della grazia ogni suo istinto più selvaggio. Aveva nell’anima un senso di solitudine, era intimorita dal buio della notte incombente, camminava con i passi incerti di un cieco e nascondeva la faccia con le movenze di una gatta dormigliona che si rannicchia davanti ad un camino acceso.
A volte si gettava sui guanciali mordendoli tra le lacrime e tra i singhiozzi, altre volte stringeva la testa tra le palme delle mani o socchiudeva le palpebre diventate improvvisamente pesanti, essendo incalzata da interrogativi a cui non sapeva rispondere. Sentiva in sé quel freddo gelo che accompagna la volontà al di là del limite noto, allorché l’anima si muta in un monte che lascia vivere sul suo culmine aguzzo un solo pensiero ossessivo: quello di un impossibile rivincita. Ma la realtà era chiara ed inconfutabile come un dovere militaresco. Iscritta alla gara, Claretta non si ritraeva, ma restava fedelmente sul campo come se fosse un corpo vertebrato da un’unica spina. Con un’angosciosa ansietà attendeva la risposta alle sue insistenti domande che cadevano puntualmente nel vuoto nonostante i ripetuti ed accorati appelli. Le venivano in mente le parole dell’elegiaco Ovidio: “Barbarus hic ego sum, quia intellegor ulli” (Io son qui come un barbaro, perché non son capito da nessuno). L’attitudine improntata di mestizia, a volte ieratica, la rendeva simile alle canèfore dei bassorilievi ateniesi. In quel mentre, tra la nera ribellione dei capelli riccioluti, pareva che subitamente dalla sua anima le macchie si cancellassero e dalla sua carne cadessero le impurità terrene.
Aveva una specie di ripudio verso ogni legame umano, verso le insidie del destino ignoto, verso i profumi portati dal vento e verso le voci che sembravano vellicarne l’udito e sussurrarle segreti inconfessabili. A dispetto di ciò una mite beltà di giovinezza sfiorita traspariva dai tratti tesi del viso che testimoniavano il supplizio del dolore di chi attende disperato la morte come se fosse un meritato e sospirato sollievo. Sapeva, infatti, tutto quello che le labbra non riescono ad esprimere, tutto quello che solo gli occhi possono furtivamente accennare.
In un uggioso sabato sera di fine aprile del 1945, le nuvole nomadi, simili a carovane con abbondanti salmerie d’acqua, migravano a frotte solcando il cupo cielo di Giulino di Mezzegra: un cielo simile a quello che il Masaccio ha dipinto nei policromi affreschi del Carmine. In quella brumosa giornata, i giunchi ed i salici fluviali si incurvavano sulla riva del Lario tra le piantaggini affusolate e piccole onde abbonacciate urtavano leggermente alcune pertiche infitte nel fondale per reggere le lenze o si infrangevano, schiumando, sulla grossa e rocciosa rena della riva. La schiuma si mischiava con la caligine umida delle nubi basse, riempiendo l’atmosfera di bieche fatalità e di funesti presagi. Una vela triangolare, nereggiando al limite dello sguardo, rompeva la diafana monotonia lacustre sulla cui liquida calma dondolavano pigramente i barconi dalle alte antenne cariche di cordami.
Il lago, lungo la costa occidentale lievemente lunata verso austro, si distendeva in una serenità quasi virginale, avendo nello splendore la vivezza che ha la pregiata pietra turchese della Persia. Qua e là, segnando il passaggio delle correnti, serpeggiavano, tra le acque immote, zone di tinta più scura. La loro superficie oscillava dolcemente come se sopra vi galleggiassero ondulanti tappeti di occhiute e variopinte penne di pavone. La veduta pareva tremare e impallidire come un immagine che attraversa il velo dell’acqua o come una pittura che lavata si stinge. Gli alberi circostanti, copiosi di verdi fronde tutte canore di passeri, avevano già nelle loro capellatura il gioco furtivo delle ombre. Le gocce della pioggia, a tratti battente, indugiavano tremolanti sui terrazzi di pietra delle case sotto un ricamo delicato di vapori che sembravano profili di case moresche o di minareti in fuga.
All’imbrunire del 28 aprile 1945, persa la vigile coscienza del luogo e del tempo, Claretta cercava il modo di nascondere una soverchiante paura che diventava terrore, forgiando lei stessa quella materia da incubo in uno strumento di tortura. I suoi occhi, dolci e clementi, non osavano alzare lo sguardo su di un volto sconosciuto per il timore di leggervi una sentenza di vita o di morte. Mentre nell’aria trasparente di un crepuscolo primaverile riecheggiava il crepitare rabbioso di un mitra assassino che l’aveva costretta a combattere ad armi impari una guerra personale, il corpo negletto e vilipeso dell’innocente amante del Duce, una donna borghese e papalina morta come una Pizia del I secolo, giaceva supino, più esangue dell’avorio, tra un cancello di ferro ed un muretto di pietra sormontato da una fitta siepe di ligustri potati con cura ed ombreggiato da un gigantesco faggio color rame. Erano le 16,20 quando il volo delle rondini nerobianche tesseva, intorno alle sue tempie imperlate di sudore, fresche ghirlande, sebbene, attraverso le ciglia chiuse, vedesse del proprio sangue tingersi il mondo. Davanti a lei ne rosseggiavano due pozze entro cui stavano le mani neppure di una stilla sozze. Così è almeno quello che ancora oggi si legge sui libri di scuola. In realtà c’è più di un motivo per dubitarne. Ma questo è un altro discorso (A. Bertotto. La morte di Benito Mussolini: una storia da riscrivere. Paoletti, D’Isidori, Capponi Editori, in corso di stampa). Il privilegio dei morti è quello di non morire più.

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