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Fiat e Chrysler in comune hanno solo i debiti

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Venerdi 24 Aprile 2009 – 15:36 – Sabrina Lauricella stampa
Fiat e Chrysler in comune hanno solo i debiti



Conti in rosso per il Gruppo Fiat, impegnato nella non semplice trattativa con il governo Usa e l’ex “big three” dell’auto a stelle e a strisce Chrysler.
La casa automobilistica della famiglia Agnelli, il cui Cda ha approvato ieri il peggiore bilancio trimestrale dall’inizio della crisi, ha chiuso il primo trimestre 2009 con una perdita netta di 411 milioni di euro, a fronte di un utile netto di 427 milioni registrato nello stesso periodo del 2008. In calo del 25,3% i ricavi del gruppo, attestatisi a quota 11,3 miliardi di euro mentre l’indebitamento netto industriale è cresciuto dai 5,9 miliardi di euro di fine 2008 ai 6,6 miliardi di euro dei primi tre mesi del 2009. Confermato invece l’utile di almeno un miliardo di euro nella gestione ordinaria 2009: il Lingotto si attende infatti un graduale miglioramento della domanda di auto nel corso dell’anno grazie all’introduzione in diversi Paesi di incentivi fiscali e alla rottamazione. Una perdita rispettivamente di 48 milioni e 30 milioni di euro è stata registrata poi nella gestione ordinaria del Gruppo e di Fiat Group Automobiles che, secondo quanto si legge nella nota diffusa dal Lingotto al termine del CdA, hanno subito un calo dei “volumi, in particolare nei primi due mesi del trimestre, parzialmente compensati da significative azioni di contenimento dei costi” comprese “prudenti riduzioni dei livelli produttivi”. In calo, infine, del 18% rispetto allo stesso trimestre 2008 i ricavi, attestatisi a quota 5,6 miliardi, e del 17,6% le vetture e i veicoli commerciali leggeri consegnati dalla casa automobilistica.
Resta aperta, nel frattempo, la discussa trattativa con l’azienda automobilistica statunitense. I termini finali della transazione, si legge nella nota sul bilancio trimestrale diffusa ieri, “continuano ad essere oggetto di negoziazione con il Dipartimento del Tesoro americano e con gli altri ‘stakeholder’ e sono soggetti alle consuete approvazioni da parte delle autorità regolamentari”. Se le negoziazioni saranno concluse con successo, ha ribadito il Lingotto, i termini finali saranno definiti entro il 30 aprile, data a ben vedere imposta da Barack Obama che si è detto pronto a revocare ogni aiuto finanziario pubblico alle banche americane creditrici della Chrysler se non rinunceranno ai 6,5 miliardi di crediti per consentire la conclusione dell’accordo con l’azienda italiana.
A tenere in sospeso l’accordo in questa non facile situazione, però, contribuisce anche l’inconfessata pretesa del “giocatore di poker” Sergio Marchionne (foto) - come lo definisce oggi “l’Economist” - di mettere le mani sulla Chrysler senza sborsare un quattrino, ma con una qualche elegante operazione di “ingegneria finanziaria”, resa possibile dall’evidente appoggio diretto del presidente degli Stati Uniti.
Lo stesso Lingotto, d’altronde, ha precisato nella nota che sta lavorando ancora al “conseguimento degli obiettivi” e all’implementazione della “strategia di alleanze mirate, al fine di ottimizzare gli impegni di capitale e ridurre i rischi”. Tra questi accordi, sembra strategico per la stessa chiusura dell’intesa con la Chrysler l’eventuale acquisizione da parte della Fiat di una quota di Opel, in mano alla General Motors.
Su Opel “niente da annunciare”, “nulla è deciso” e “non c’è nessun colloquio diretto”, ha sottolineato ieri nel corso di una conference call l’Ad Sergio Marchionne. Secondo insistenti indiscrezioni però, confermate ieri dal premier dello Stato tedesco d’Assia, Roland Kock, e dal capo del sindacato dei lavoratori della Opel Klaus Franz, l’imprenditore Roland Berger, membro del CdA di Fiat e consulente della GM nella ricerca di un investitore per Opel, starebbe lavorando ad un accordo che consentirebbe al Lingotto di diventare azionista di maggioranza della casa tedesca, con un obiettivo che il sindacalista considera però squisitamente finanziario.

I dubbi dei sindacati
“La Fiat ha 14,2 miliardi di euro di debiti ed un enormi problemi di liquidità” e “quindi non hanno disponibilità al momento”, ha spiegato Franz. Il sindacalista ha poi ricordato che il mese scorso il Cancelliere tedesco Angela Merkel si è offerta di aiutare economicamente il potenziale investitore di Opel, cosa che porta Franz a concludere che la Fiat non sia interessata ad una partnership strategica ma solo ad avere nuovo accesso al credito, magari da utilizzare in altre operazioni. Sempre secondo i rumors, in effetti, l’operazione sarebbe subordinata all’intesa con la società americana e potrebbe essere finanziata anche con una operazione sulla Cnh, Case New Holland, la controllata statunitense attiva nella produzione di macchine agricole. Pur avendo smentito l’ipotesi di una cessione della Cnh, la Fiat ha annunciato ieri che ridurrà del 10-15% la forza lavoro della controllata. La soluzione “è allearsi e consolidarsi” e “non sacrificare quello che si è ottenuto con tanto lavoro”, ha detto Marchionne, secondo il quale il miglior metodo per uscire dalla crisi “è fare delle auto e fare dei soldi producendo veicoli”.
L’operazione triangolare ideata dai vertici di Fiat e dal Fondo Cerberus Capital Management L.P., azionista di maggioranza di Chrysler LLC e responsabile di forti tagli occupazionali dopo il divorzio tra la Chrysler e la Daimler, non piace però ai sindacati. La lettera d’intenti siglata il 20 gennaio scorso dai due contraenti, ha sottolineato il numero uno della Fiom, Gianni Rinaldini, prevede che Fiat contribuisca “all’alleanza con attività strategiche, tra le quali: condivisione di prodotti e piattaforme, inclusi quelli destinati ai veicoli dei segmenti city e compatti, per ampliare l’attuale gamma di Chrysler; condivisione di tecnologie, comprese quelle relative a motori ecologici ed a basso consumo; accesso a mercati internazionali”. In cambio, la ditta torinese riceverebbe una partecipazione nel capitale di Chrysler senza alcun esborso di cassa verso Chrysler né impegni a finanziare la casa automobilistica in futuro. “Ci potremmo ritrovare in una grande Fiat internazionale e in una piccola Fiat in Italia e la cosa non credo possa essere accettata né tantomeno subita”, ha aggiunto non senza ragioni il segretario generale del sindacato dei metalmeccanici. Per il sindacalista non è accettabile che, mentre da una parte Marchionne prende tempo con i lavoratori dicendo loro di attendere la fine della crisi per avere informazioni sul futuro degli stabilimenti dello Stivale, dall’altra abbia già aperto uno stabilimento in Serbia e discuta negli Usa su nuovi modelli. Il fondato timore di Rinaldini è insomma che la Fiat intenda spostare la produzione in Europa e negli Usa, mettendo a rischio la sopravvivenza degli stabilimenti nostrani, in particolare Pomigliano e Termini Imerese, dove si è già vicini al limite delle 52 settimane di Cassa integrazione.
Soluzioni esaurienti non sono arrivate neppure dagli incentivi varati dal governo: oltre a spingere la produzione a Melfi, come ha sottolineato il segretario generale dell’Ugl, Renata Polverini, essi “puntano a stimolare la domanda di automobili ma di fatto non danno sufficienti garanzie sul mantenimento dei livelli occupazionali e delle produzioni, aspetti importanti sui quali serve un confronto”.
Il problema dunque, come ha spiegato Rinaldini, “è che non si capisce, dentro questi percorsi di alleanze europee o internazionali, cosa succede in Italia perché Fiat non ha presentato alcun piano sul futuro degli stabilimenti nel nostro Paese e nel frattempo sta ‘raschiando liquidità’ in tutti i modi possibili sia nei confronti dei lavoratori che delle strutture dei fornitori”.
I tagli inoltre non coinvolgerebbero solo l’Italia, come ha ammesso giorni fa il ministro dell’Industria canadese, Tony Clement. L’accordo, comporterà infatti molti tagli anche negli stabilimenti situati in Canada e negli Usa, fatto che ha scatenato forti proteste anche tra i sindacati locali.

L’insistenza di Obama
Il progetto comunque andrà in porto: come è ormai chiaro, piace troppo al neo-presidente degli Stati Uniti, deciso a combinare un bel matrimonio tra le due aziende, salvando dal collasso la Chrysler e portando in dote a Detroit la tecnologia Fiat per realizzare auto più piccole di quelle americane, con motori dai minori consumi e meno inquinanti e soprattutto prezzi decisamente più bassi degli standard Usa. La casa d’Oltreoceano, in cambio, metterà a disposizione della Fiat e dell’Alfa Romeo la propria succulenta rete commerciale d’Oltreoceano, consentendo al Lingotto di tornare dopo molti anni nel mercato Usa.
Viene da chiedersi però, come mai il governo statunitense sia così favorevole alla prospettiva di mettere una storica azienda nazionale sotto il controllo di una casa europea. Se è vero che l’ombra del cosiddetto “Chapter 11”, la procedura di fallimento guidato dal governo, aleggia sulla Chrysler è altrettanto vero che tale soluzione si scontra con il tradizionale nazionalismo americano. Per qualcuno, però, l’accordo con la Fiat potrebbe essere una sorta di contropartita dell’esecutivo americano per il mancato accordo con Alenia per l’elicottero presidenziale. Comunque stiano le cose, però, a farne le spese saranno, ancora una volta, i lavoratori.

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