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Tra Davos e Belem, la differenza tra schiavi e liberi

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Venerdi 30 Gennaio 2009 – 15:26 – Ferdinando Calda stampa
Tra Davos e Belem, la differenza tra schiavi e liberi



In questi giorni, in America Latina, appare più che mai evidente la spaccatura tra i Paesi che permangono nella tradizionale schiavitù nei confronti di Washington e quelli che stanno seguendo speranzosi l’ondata di cambiamento iniziata dal presidente venezuelano Hugo Chávez.
Infatti, mentre i presidenti di Bolivia (Evo Morales), Ecuador (Rafael Correa), Paraguay (Fernando Lugo) e Venezuela (Hugo Chávez) si riuniscono a Belem, in Brasile, per il World Social Forum, il capo di Stato colombiano, Alvaro Uribe, e il collega messicano, Felipe Calderòn, si trovano a Davos, in Svizzera, in occasione del Forum economico mondiale. Da una parte i bolivariani incontrano i popoli liberi della Terra per ricordare 500 anni di resistenza e conquiste delle popolazioni indigene e per discutere del loro futuro. Dall’altra i servi del grande capitale seguono riverenti i grandi burattinai della finanza e dell’economia. A seguire Uribe e Calderòn nel loro viaggio in Svizzera, ci sarà anche il sindaco di Buenos Aires, Mauricio Macri, esponente dell’opposizione argentina contro la “presidenta” peronista Cristina Kirchner.
Le differenti destinazioni di questi capi di Stato non sono per niente casuali e dimostrano la spaccatura che esiste in America Latina tra popoli liberi e quelli asserviti agli Usa. C’è, infatti, una bella differenza tra chi svende il proprio Paese alle multinazionali (sia Uribe che Calderòn, alla vigilia del vertice di Davos, hanno sottolineato la necessità di attirare maggiori capitali stranieri nei rispettivi Paesi) e chi, invece, si preoccupa della battaglia degli indigeni dell’Amazzonia per la loro terra, minacciata dalla deforestazione e dagli interessi delle grandi compagnie straniere.
A Belem, dove si sono radunate decine di migliaia persone, tra cui moltissimi indigeni, si discute di cambiamenti climatici e giustizia ambientale, diritti umani, lavoro, migrazioni, fine della criminalizzazione dei movimenti sociali, terra, territorio, identità e sovranità alimentare. Ieri, ad esempio, la seconda giornata del World Social Forum è stata incentrata sulle devastazioni causate dal proliferare delle miniere nel cuore dell’Amazzonia. In particolare sono state sottolineate le responsabilità dell’impresa mineraria brasiliana, la Vale do Rio Doce, che sfrutta, tra le altre cose, la più grande miniera all’aria aperta del mondo, che si trova proprio nello stato del Parà, di cui Belem è la capitale. Da quando è stata privatizzata, nel 1997, la Vale ha già accumulato 56 infrazioni gravi dello statuto ambientale, con multe pari a circa 10 milioni di euro. Se questo non rappresenta un problema per un’azienda che solo nel 2007 ha fatturato 11 miliardi di euro, è invece una calamità per le numerose comunità, indigene e non, che vivono attorno alle zone devastate dalle miniere.
Qualcosa però sta cambiando. Il presidente Venezuelano Hugo Chávez ha infatti tracciato la via di una rivoluzione bolivariana che sta facendo tremare gli Stati Uniti e non solo. Chi più e chi meno, i Paesi dell’America Latina stanno seguendo l’esempio di Caracas.
Morales in Bolivia e Correa in Ecuador hanno sposato in pieno il progetto rivoluzionario di Chávez, ma anche il Cile della Bachelet, l’Uruguay di Tabarè Vàzquez, l’Argentina della Kirchner, il Paraguay di Lugo e il Brasile di Lula non sembrano immuni a quest’ondata di cambiamento, che sta finalmente restituendo al popolo latinoamericano le redini del proprio destino.

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