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Kosovo: un binomio diaspora-criminalità organizzata

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Venerdi 11 Aprile 2008 – 14:46 – Alfredo Musto stampa
Kosovo: un binomio diaspora-criminalità organizzata



Nel fosco scenario della vicenda kosovara ci sono personaggi e centri di potere che hanno un’influenza decisiva circa le sorti dello sbandierato staterello indipendente.
Il ruolo che svolge la diaspora albanese nel mondo con i suoi diversi strumenti a disposizione è sostanzialmente poco sottolineato nello scorrere dei flussi mediatici di informazione. Di solito, a livello internazionale e con riferimento a determinati regimi ed avvenimenti, prevale uno schema ormai standard che mostra uomini e donne (magari non proprio “brava gente”) che, in fuga dai Paesi d’origine, trovato un accogliente rifugio nella terra della libertà e dell’uguaglianza (di solito Londra e Washington) dove un’occasione non si nega quasi a nessuno, rinsaviscono nelle vesti di arguti intellettuali, politici ed economisti con le soluzioni giuste e gli strumenti per fare bene. Qualcuno diventa portabandiera dei diritti umani, assumendo i connotati di una certuna superiorità morale, altri si inseriscono nei gangli istituzionali, diplomatici o economici. Alcuni ritornano sul suolo patrio dopo colpi di stato ovviamente “democratici”, altri dopo bombardamenti, anche quelli forieri di libertà per così dire all’occidentale. C’è poi anche quella categoria di quanti operano principalmente più da burattini tout court o nell’ombra e preferibilmente da burattinai-progettisti.
Ebbene, tra gli artefici del “progetto Kosovo” vi sono senza dubbio gli albanesi della diaspora (compresi gli albanesi-kosovari appunto), che ruotano intorno a potenti gruppi di pressione che veicolano flussi di danaro calamitati in diversi modi, trasparenti e non.
Tali gruppi lobbistici da tempo sono integrati nelle strategie operative atlantiche, il che vuol dire un raggio d’azione che investe tanto le forme più “istituzionali” di gestione del Kosovo, ma soprattutto la dimensione criminale e illegale che costituisce, non scopriamo nulla di nuovo, la piattaforma caratterizzante di questo territorio. Dunque, stanziatesi a Washington, in Svizzera, in Germania o in Gran Bretagna, le centrali della diaspora albanese si prodigano da tempo in una manipolazione costante sul piano mediatico e nel sostegno ad una classe dirigente criminal-burocratica che ha assunto le redini del comando in Albania e in Kosovo. In più, gioca un ruolo pressante e organizzativo nel cammino di edificazione della “Grande Albania”, un soggetto geopolitico che, se si considerano le premesse, porterebbe ulteriori fattori di destabilizzazione sul versante orientale dell’Europa.
Tra i potenti gruppi di pressione transnazionale albanesi ci sono il National Albanian American Council e l’Albanian American Civil League (AACL). Il loro peso risulta decisivo nella creazione della mitopoiesi kosovara e nella materiale realizzazione attraverso i vari passaggi che hanno caratterizzato gli ultimi anni di transizione dalla fine della Jugoslavia alla nascita di un buco nero chiamato Stato.
La lobby albanese, si noti, si è imposta in tre di quei Paesi che hanno costituito il gruppo di contatto delegato alla gestione della questione kosovara, cioè Usa, Gran Bretagna e Germania.
Moltissime famiglie kosovare hanno uno o più referenti all’estero, il che implica una risorsa economica irrinunciabile, come del resto evidenziano dai dati del 2003 da parte del ministero delle Finanze kosovaro, che indicano in 720 milioni di euro le rimesse degli emigrati, pari a quasi il 50% del Pil (fonte “Limes”, quaderno “Kosovo. Lo stato delle mafie” ). Ma le rimesse non rendono l’evidenza di una più stretta cooperazione finanziaria tra gli emigrati e la madrepatria, giacché tale forma di cooperazione concerne le ingenti somme che fruttano gli ingarbugliatissimi traffici illegali che come vene stanno diramandosi sul martoriato “corpo” della penisola balcanica.
Nel corso degli ultimi anni si sono verificate sostanzialmente tre ondate migratorie dal territorio del Kosovo: negli anni Sessanta dalle campagne, negli Ottanta e primi anni Novanta con i flussi provenienti dai centri urbani, e nella fase post-attacco Nato, quando il fenomeno dei rifugiati fu innestato da una serie di forzature e dopo i bombardamenti “democratici” delle forze atlantiche, e non come reazioni alle violenze etniche serbe che lì non hanno avuto luogo, sebbene ciò venisse artificiosamente sostenuto allora per scindere buoni e cattivi.
Su tutte l’AACL, con sede a Washington e ottime simpatie alla Casa Bianca prima con Clinto e ora con Bush, ha apertamente lavorato all’opera di legittimazione e di affiancamento delle milizie dell’Uck alle truppe e agli ambienti della Nato, attraverso un sostanzioso appoggio sia politico che finanziario, così da portare avanti l’obiettivo di presentare un sanguinario movimento terroristico come un esercito di liberazione e personaggi molto discutibili come interlocutori politici a pieno titolo con cui convincere gli europei a trattare. In questi anni hanno lavorato per la preparazione del Kosovo all’indipendenza. Hanno contribuito a che si realizzasse sotto il “pacifinto Rugova” una dimensione pubblica parallela a quella serba, una sorta di Stato parallelo clandestino che potesse contare su strutture pubbliche di vario tipo. All’interno, però, si è fatto in modo che il controllo fosse nelle mani di faccendieri, clan e terroristi.
Nella globalizzazione galoppante occorre tenere presente che i gruppi criminali sono dei soggetti geopolitici a tutti gli effetti che si inseriscono nei giochi delle alleanze e nei processi di destabilizzazione e stabilizzazione, spesso agendo alle spalle delle istituzioni e delle figure pubbliche, che in determinati territori sono una loro stessa emanazione.
Le organizzazioni criminali gestiscono una tratta di donne e uomini di varie nazionalità con prevalenza russa, moldava, ucraina, romena e bulgara a fronte della crescente domanda di lavoratori a basso costo e prostitute proveniente dai mercati europei.
In questi anni hanno assunto rilievo i cinesi mediante le loro triadi criminali intorno cui ruota un giro di affari molto lucroso. Del resto, i cinesi puntano in maniera crescente ad una penetrazione nei Balcani, in particolare con l’obiettivo di fare della Serbia un trampolino verso l’Europa dell’immigrazione clandestina. Pristina ha ormai una propria china-town, dove si intensificano attività commerciali a copertura di una certa rete di smistamento illegale che dalla Serbia, compreso il territorio kosovaro, si indirizza sull’autostrada Belgrado-Zagabria verso l’Italia per poi accedere agli altri Paesi europei.
I cinesi sono formidabili nelle estorsioni e nel riciclaggio all’interno di una proficua economia sommersa.
Indagini degli inquirenti e dell’Unmik hanno rilevato enormi transazioni finanziarie tra il Kosovo e la Repubblica popolare cinese, in virtù di grosse somme che settimanalmente passano sui conti intestati alle varie attività locali.
Di solito arrivano in Kosovo in contanti per poi ripartire con i conti bancari. Sono il frutto dell’intensissima operazione di traffici che i cinesi ramificano e radicano nell’ombra con una spietata metodologia di sfruttamento, considerando poi che le autorità di sicurezza hanno scarso potere di intervento e le istituzioni sembrano appunto compiacenti a che il progetto “Kosovo mafioso” abbia successo.
Sul versante Nord-Ovest le armi entrano dal Montenegro attraverso Kuciste, passando i centri logistici di Pec, Klina, Urosevac e Kacanik; dall’Albania attraverso Morina e Kukes, passando per Djakovica e Prizren.
Sul versante Nord-Est esse provengono dallo stesso territorio serbo passando per Mitrovica, Gnjilane o Vitina, di fatto intorno al centro principale, Pristina.
I flussi di droga, centinaia di tonnellate, hanno origine soprattutto in Afghanistan, nelle zone di confine con Pakistan, Iran e Turkmenistan, nei centri quali Kandahar, Helmand, Nimroz, Farah, Uruzgan, Day Kundi e Badghis. Si tratta in primo luogo di eroina, con uno snodo importantissimo che è il territorio iraniano di confine così come quello turco, dove agiscono i gruppi criminali indigeni, protagonisti dello smercio in Europa.
Dunque, oltre alla tradizionale rotta della “via della seta” c’è una direttrice balcanica centrale attraverso Turchia, Bulgaria, Romania, Macedonia, Kosovo, Bosnia e Slovenia; e una più a sud Turchia-Grecia-Albania. Entrambe confluiscono in Italia, dove la criminalità organizzata ha stretto particolari accordi con i gruppi turchi e albanesi. Non solo, a Pristina, convoglierebbe anche gran quantità di cocaina per via aerea.
Le organizzazioni albanesi-kosovare interagiscono con altre di varia etnia e nazionalità, ma hanno ormai un potere di primissimo livello, costituiscono delle efficacissime centrali decisionali e di smistamento sul quadrilatero Durazzo-Skopje-Pristina-Podgorica.
In considerazione di questo scenario, il Kosovo ricopre il ruolo di cerniera tra Occidente ed Oriente.
L’assimilazione della sua società e delle sue istituzioni alle pratiche e al modelli mafiosi ne determina uno status geopolitico rilevante se inquadrato nella doppia funzione di stabilizzazione/destabilizzazione che esso può esercitare, in base alle circostanze e agli interessi di cricche e potenze.
Se la Serbia qui ha perso sovranità, l’Europa misura la cifra della propria inconsistenza e della propria sudditanza a poteri interni ed esterni.

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