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Il lungo cammino verso la verità. Una vulgata da telenovela

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Sabato 13 Giugno 2009 – 11:01 – Maurizio Barozzi stampa
Il lungo cammino verso la verità. Una vulgata da telenovela



Sono trascorsi 64 anni da quando quel sabato 28 aprile 1945 Benito Mussolini e Claretta Petacci vennero assassinati in circostanze mai esattamente chiarite.
Oggi possiamo dire che mentre una certa storiografia, rappresentata dal celebre Istituto di Storia Contemporanea di Como, resta ancora attaccata come un ostrica allo scoglio alla “versione ufficiale” di Walter Audisio, altri attenti studiosi di quegli eventi, anche grazie ad alcuni elementi oggettivi, sono giunti alla logica conclusione che Mussolini e la Petacci vennero uccisi al mattino con modalità del tutto diverse da quelle raccontate dalla “vulgata”.
Il quadro generale di questa “storica versione” attesta la partenza, al mattino del 28 aprile 1945 da Milano, di una missione (con mandato segreto di fucilare il Duce e gli altri fascisti catturati a Dongo) affidata a Walter Audisio, alias colonnello Valerio, coadiuvato da Aldo Lampredi Guido e scortata da un plotone dell’Oltrepò Pavese. Audisio andò a Como in Prefettura e poi alle 14,10 arrivò a Dongo e da qui, assieme a Michele Moretti Pietro e ad Aldo Lampredi si recò a Bonzanigo a prelevare Mussolini e la Petacci per fucilarli alle 16,10 nella sottostante Giulino di Mezzegra.
Tutti questi eventi saranno raccontati con dovizia di particolari, ma tutti incongruenti e in una girandola pazzesca di variazioni, da tre fonti: l’Unità del 30 aprile 1945, che riporta un sintetico racconto di un “anonimo esecutore” della condanna a morte di Mussolini; sempre l’Unità, ma del novembre-dicembre 1945, con 24 articoli a nome del colonnello Valerio e avallati da una presentazione di Luigi Longo; ed infine ancora l’Unità del marzo 1947 con 6 articoli ora firmati direttamente da Walter Audisio.
Il cerchio si chiuderà nel 1975 quando, morti Lampredi (aprile ‘73) e Audisio (ottobre ‘73), la Teti, casa editrice utilizzata dal Pci, fece uscire il libro postumo di Audisio “In nome del popolo italiano”, con il quale si sperò, ma invano, di mettere la parola fine a tutte le critiche.
Nel frattempo nel 1972 (ma lo si fece sapere nel 1996) Aldo Lampredi aveva rilasciato al suo partito una Relazione riservata (dopo 27 anni!) che ridimensionava le fanfaronate di Audisio su Mussolini, precisava qualche particolare, ma sostanzialmente (e questo era il suo vero scopo) confermava la fucilazione eseguita da Audisio, alle 16,10 e davanti il cancello di Villa Belmonte.
Ma se il quadro generale di questa versione può in qualche modo tenersi in piedi, pur tra episodi, nominativi e dialoghi inattendibili e continuamente modificati, è altrettanto vero che all’interno di questo quadro si svolse un altra storia, rimasta segreta, ma non totalmente oscura.
E’ quella che vede la partenza da Milano, o il reperimento sul posto (Como e dintorni) di una altra missione a cui ancora non si riesce a dare i nomi, che a latere della spedizione di Audisio, si recò a Bonzanigo ad uccidere il Duce intorno alle 9, o poco prima della 10, del 28 aprile 1945.
A queste conclusioni ci si è arrivati con il tempo, dopo un lungo e contraddittorio cammino, durato oltre sessanta anni, cosparso anche di cervellotiche “versioni alternative” il quale, pur avendoci mostrato la fine di questa montatura ed indicato con molta veridicità una diversa dinamica e modalità di quella morte, non ha però ancora consentito di dare un nome agli assassini.
Per la cronaca, iniziò Ferruccio Lanfranchi, nell’estate/autunno del 1945 con il suo Corriere d’Informazione, fornendo alcuni particolari che, di fatto, scombussolavano la primogenita stringata e anonima versione del 30 aprile 1945 apparsa sull’Unità.
Si trattò però di particolari molto confusi e spesso inesatti anche se, per altri versi, proprio quei primi resoconti del Lanfranchi, una fonte cioè non comunista, forse sottilmente e indirettamente ispirati, costituirono un primo avallo al quadro d’insieme di quella “versione” che implicitamente si contribuiva così a divulgare. Come giustamente notò l’avvocato Alessandro Zanella: “Lanfranchi rappresenta..., il culmine di una montatura e, se vogliamo, anche l’inizio di una revisione” (A. Zanella, L’ora di Dongo, Rusconi 1993).
Quel che sconcerta è però il fatto che il Lanfranchi, dopo aver ingarbugliato, avallato e in parte smentito, la versione di Valerio, agli inizi del 1946 abbandonò inaspettatamente le sue inchieste tanto che Franco Bandini, già cronista del Lanfranchi, scrisse significativamente:
“dovevano esserci ragioni valide… egli all’inizio del 1946 era arrivato molto vicino alla verità (...) Se egli non si occupò più della fucilazione di Mussolini fu per altre e sottili ragioni (non per la mancanza di coraggio, n.d.r.), forse connesse alla sua amicizia con molti grossi nomi del gruppo azionista milanese, ed alla comune appartenenza ad una qualche ideologia, piuttosto segreta” (come non pensare alla Massoneria?! nda).
Nei primi anni ‘50 e seguenti, altri due giornalisti portarono sensibili colpi alla “vulgata”: Franco Bandini e Giorgio Pisanò.
Il primo, con le sue inchieste per varie riviste e soprattutto sull’Europeo, raccolte poi nel “Le ultime 95 ore di Mussolini”, Sugar 1959, aveva messo insieme fatti inediti e importanti testimonianze rese da alcuni presunti testimoni di quegli eventi che però risentivano dei loro limiti, per così dire, “da rotocalco” e spesso risultavano inattendibili o contraddittori, ma facevano intuire che c’era come un “eco” di ben altri avvenimenti accaduti quel giorno a Bonzanigo e Mezzegra.
Il secondo, Pisanò, condusse varie e approfondite inchieste su “Il Meridiano d’Italia”, poi su “Oggi”, e su “Candido”.
Ma come vedremo, sarà soprattutto con gli anni successivi che Bandini e Pisanò, come due mastini che non mollano l’osso, pur tra qualche esagerazione, speculazioni politiche, scoop giornalistici e balle varie, assesteranno colpi importanti alla vulgata resistenziale.
Fino alla fine degli anni ’60 però, tutti i ricercatori storici, che prendevano in mano quegli eventi e riscontravano nella “versione ufficiale” contraddizioni gravi, elevando quindi sensibili dubbi e sospetti, si muovevano sul canovaccio di quella versione stessa, dando per scontata una fucilazione di Mussolini a Villa Belmonte alle 16,10. Questa limitazione, ovviamente, faceva giungere tutte le ricostruzioni di quegli eventi, ad un punto morto, anche se uscivano fuori molti particolari interessanti, come per esempio quelli di Franco Serra nella sua inchiesta per la Settimana Incom dell’aprile 1962 in cui, basandosi sulle rivelazioni, seppur sospette, della Francesca De Tomasi (dattilografa del CVL, figlia di una cugina di Audisio e ben conosciuta da Luigi Longo e che già aveva avuto una sua parte nelle inchieste del Lanfranchi) e di Martino Caserotti (il comandante Roma che al tempo operava nella Tremezzina) mise in discussione il ruolo di Audisio quale unico fucilatore e la parte giocata come colonnello Valerio.
In quei periodi si riuscì anche ad ottenere delle testimonianze dall’autista, che requisito da Audisio sulla piazza di Dongo, lo aveva condotto assieme al Lampredi e al Moretti a Bonzanigo, ovvero Giovanbattista Geninazza.
Questi pur palesando un evidente timore, rese un racconto che confermava, ma con molte differenze, la versione di Audisio, introducendo però novità, costituite dal fatto che, secondo il Geninazza, l’Audisio non salì a casa De Maria a prelevare i prigionieri, ma rimase con lui sulla piazzetta del Lavatoio (smentendo così tutti i fantasiosi e denigratori dialoghi di Audisio con Mussolini). Aggiunse poi che Mussolini, quando venne ucciso, si aprì il bavero del pastrano e gridò “Sparatemi al petto!”. I racconti di questo autista però, oltre a varie incongruenze, erano inficiati dal fatto che egli asserì che quella sera era poi tornato con la macchina e con Audisio, a Villa Belmonte per prelevare i cadaveri da portare al camion che era venuto a prenderli da Dongo, cosa questa che non risulta, e soprattutto dal fatto che, in un suo contemporaneo memoriale, per anni rimasto inedito, asserì anche che egli, la notte precedente aveva fatto parte del gruppo che, partito da Germasino e passando per Moltrasio, aveva poi trasferito e nascosto Mussolini e la Petacci in casa De Maria a Bonzanigo. Ma la partecipazione del Geninazza a quel viaggio notturno non risultava da nessuna parte (Vedi: Memoriale di Geninazza in Libero 25 aprile 2009). Insomma, per qualche strano motivo, i racconti di questo Geninazza risultavano poco credibili, tanto più che su questo autista, rivelò il giornalista Marcello Staglieno, nel suo libro “L’Italia del colle”, Boroli 2006: “Incontrandolo con lo storico Gianfranco Bianchi il 2 febbraio 1975 ci disse: (il Geninazza, n.d.r.) “Parlare? Fossi matto!”.
In definitiva, fino alla fine degli anni ‘60, non si poteva contare su elementi qualificati per mettere seriamente in dubbio la versione di Valerio e la critica faceva conto, più che altro, su le evidenti e palesi contraddizioni della stessa vulgata.
Nel febbraio del 1973 però, proprio il Bandini, scrisse un indimenticabile servizio sul mondadoriano Storia Illustrata N. 183, titolato “Fu fucilato due volte”, riportando una sconvolgente ipotesi: l’uccisione di Mussolini intorno a mezzogiorno e la successiva sua finta fucilazione davanti al cancello di villa Belmonte.
Come il Bandini abbia avuto questa intuizione resta un mistero, visto che la sua ipotesi non poggiava su capisaldi concreti (resisi palesi solo negli anni successivi). Agli inizi del 1973 infatti, non erano ancora note gli studi balistici e cronotanatologici del dottor Aldo Alessiani che dimostravano l’inattendibilità della versione di Audisio, nè si era ben focalizzato lo stivale destro del Duce rotto nella sua chiusura lampo, particolare che smentiva il normale deambulare di un Mussolini condotto all’esecuzione e soprattutto quello del giaccone indosso al cadavere di Mussolini e assolutamente imperforato, indice di una evidente rivestizione da morto.
Si sapeva che Giorgio Pisanò, in una intervista del 1956 per il settimanale Oggi, aveva raccolto da Sandrino Guglielmo Cantoni (uno dei due guardiani del Duce e la Petacci in casa De Maria a Bonzanigo) anche una confidenza sul fatto che Audisio aveva sparato a dei cadaveri. Ma il Cantoni aveva poi ritrattato tutta l’intervista, con tanto di dichiarazione autografa.
Al tempo, più che altro il Bandini contava su una testimonianza, tra l’altro indiretta, di un certo Maxmiliam Mertz, già proprietario di una villa adiacente a Villa Belmonte, il quale aveva raccontato di aver visto, alle 16,10 sparare, davanti al cancello della Villa, su dei cadaveri.
La testimonianza sembra che il Mertz l’aveva lasciata scritta in una lettera al figlio, ma la lettera non era stata mostrata. Insomma una rivelazione non comprovabile.
Forse, non è azzardato sospettare, il Bandini ebbe qualche “soffiata” e quindi forte di altri particolari raccolti in anni e anni di ricerche, arrivò proprio alla deduzione della “doppia” fucilazione. E colse veramente nel segno!
Questa versione, comunque, sempre non sufficientemente dimostrata, venne poi, dal giornalista storico di origini toscane, puntualizzata meglio nel suo libro del 1978, Vita e morte segreta di Mussolini, Mondadori, dove insinuò anche una possibile sostituzione di Valerio con Luigi Longo.
Ma come disse Renzo De Felice, al Bandini mancava la cornice per tenere uniti i vari pezzi.
Comunque, in quei primi anni ’70, vuoi perché il Bandini aveva colto nel segno, o vuoi perché oramai la misura era colma, l’allora PCI incaricò il giornalista Candiano Falaschi dell’Unità di svolgere una contro inchiesta, attraverso le solite testimonianze di partigiani comunisti, raccolta anche in un libretto edito dagli Editori Riuniti: “Gli ultimi giorni del fascismo”, 1973.
Nel frattempo nel 1974 uscì il mediocre film di Carlo Lizzani “Mussolini ultimo atto”, una retorica ricostruzione della fine del Duce, infarcita di luoghi comuni (di fatto la “versione ufficiale” edulcorata e riversata in pellicola), ma che per il carattere di impatto che la filmografia ha sull’immaginario collettivo, può definirsi un vero colpo di genio.
Colmo dell’ironia, lo stesso regista Lizzani, confesserà molti anni dopo, in un suo libro di memorie “Il mio lungo viaggio nel secolo breve”, Einaudi 2007, che l’allora presidente della camera Sandro Pertini, subito dopo aver visto il film, gli scrisse una lettera in cui affermò: “...e poi non fu Audisio a eseguire la “sentenza”, ma questo non si deve dire oggi”.
E questa confidenza, da parte di un pezzo da novanta della Resistenza, non solo liquida definitivamente la “storica versione”, ma liquida anche la sua ruota di scorta ovvero la “Relazione riservata al Pci” di Aldo Lampredi del 1972, che pure attestava il ruolo di esecutore di Audisio. Anzi la rivelazione di Pertini indirettamente dimostra come quella Relazione sia tutta una messa in scena, perchè sarebbe assurdo che il Lampredi, aveva addirittura dato una relazione non veritiera al suo stesso partito che pur doveva ben sapere come stavano le cose!
Con gli anni ottanta, anche per il ritorno in Italia di Bill alias Urbano Lazzaro e le sue tardive certezze (raccolte poi nel 1993 in un libro edito da Mondadori, Dongo mezzo secolo di menzogne) sul fatto che il Valerio di Dongo e Mezzegra fosse Luigi Longo, sulla stampa si sviluppò tutta una nuova telenovela su chi si celasse dietro il nome di battaglia del famoso Valerio. L’argomento faceva cassetta e tante furono le congetture tutte però prive di elementi concreti e attendibili.
Nel frattempo ci si mise anche un certo Giovanni Lonati, ex partigiano Giacomo, con la sua storia di aver ucciso, verso le 11 del mattino, il Duce per ordine ed in compartecipazione di un ufficiale inglese, tale John. Come di solito accade in questi casi, la storia di Lonati, ampliata poi con il suo libro “Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta la verità”, Edizioni Mursia 1994, per i sui risvolti di intelligence e per l’aggancio con le vicende del famoso Carteggio Mussolini/Churchill fu, anche se non dimostrata, quella che più venne pubblicizzata, perfino attraverso vari servizi televisivi. In definitiva questa versione, un vero e proprio fumettone inattendibile, fece più confusione che altro (M. Barozzi: “La spy story di Giovanni Lonati e del capitano John” Rinascita 15 agosto 2008).
Negli anni ’80 un medico legale, di Ascoli Piceno ed esercitante al tribunale della magistratura di Roma, Aldo Alessiani, rese noti dei rivoluzionari ed interessanti studi durati anni.
Con tecniche empiriche alquanto intelligenti e rilievi logici, fatti sulle foto dei cadaveri ed il loro vestiario, le gore ematiche apparse e scomparse sulle salme ed una critica a tutto campo al verbale dell’autopsia del prof. Cattabeni, Alessiani ipotizzò una morte di Mussolini all’alba ed addirittura durante una fase di lotta e senza il vestiario indosso, nella stessa stanza di casa De Maria (vedere: A. Alessiani: Il teorema del verbale 7241, in http://www.larchivio.org/xoom/alessiani.htm).
Le tesi di Alessiani fecero un certo scalpore, ma forse per alcune forzature o comunque per il fatto che non erano dimostrabili con certezza assoluta, oltre alla possibilità di leggere quei rilievi anche in altri modi, con il tempo finirono per perdere molto del loro mordente. Anche alcuni elementi, come per esempio la stanza di casa De Maria e i mobili che non presentavano gli esiti di una mattanza del genere e la Petacci sicuramente uccisa con la pelliccia indosso, quindi fuori casa, non collimavano con la versione di Alessiani (uccisione all’alba e tutta in camera).
E’ un fatto però che da allora hanno tutti dovuto tenere conto di buona parte degli studi di Alessiani ed è evidente, pur con tutte le limitazioni delle metodologie cronotanatologiche, che la morte di Mussolini e della Petacci va retrodatata di almeno 5 – 7 ore. Probabilmente le ferite al fianco e forse al braccio di Mussolini sono di pistola e vanno addebitate ad una colluttazione avvenuta in stanza. Portato poi nel cortile dello stabile, con indosso solo la maglietta di salute e i pantaloni, venne sbrigativamente ucciso (G. Pisanò: Gli ultimi 5 secondi di Mussolini, il Saggiatore 1996).
Un prezioso e dettagliato lavoro dell’avvocato Alessandro Zanella: L’ora di Dongo, Rusconi 1993, portò in quegli anni un notevole contributo alla chiarificazione di molti avvenimenti soprattutto perché si articolava su una numerosa mole di fatti e testimonianze.
Lo Zanella forni anche tutta una serie di intelligenti intuizioni su di una possibile dinamica degli eventi, ma poi si lasciò andare ad una sua fantasiosa ipotesi sull’uccisione di Mussolini e la Petacci, sostenendo che sarebbe avvenuta all’alba sotto casa De Maria, ad opera anche di Luigi Canali (capitano Neri).
Nonostante questa ipotesi sia non comprovabile, l’opera dello Zanella divenne un testo imprescindibile per ogni ricerca su quell’oscuro periodo. […]
Dopo Bandini ed Alessiani un altro grosso macigno contro la versione ufficiale, forse quello più decisivo, lo buttò Giorgio Pisanò grazie al recupero della testimonianza di Dorina Mazzola, una anziana signora al tempo diciannovenne e abitante a Bonzanigo che la mattina del 28 aprile del 1945 assistette, pur senza sapere di chi si trattava, alla uccisione di Claretta Petacci sotto casa sua e ad alcuni precedenti episodi correlati all’uccisione di Mussolini sotto casa De Maria (vedesi: M. Barozzi: La testimonianza di Dorina Mazzola, Rinascita 23 maggio 2009).
Con il libro-testimonianza di Pisanò “Gli ultimi cinque secondi di Mussolini”, si giunse quindi ad una svolta storica, perché per la prima volta si era in presenza di una vera e propria testimonianza di un teste dell’epoca, non di parte, che con il suo racconto, alquanto attendibile, svelava finalmente buona parte della verità. Pisanò inoltre riportava, nel suo libro, una decisiva testimonianza di Savina Santi, la vedova di Sandrino Guglielmo Cantoni. La Santi con il suo racconto, indirettamente, confermava in pieno la testimonianza della Mazzola.
Meritano infine menzione anche un paio di altri colpi di teatro, verificatesi dopo la clamorosa testimonianza di Dorina Mazzola.
Il primo fu una importante informazione, rilasciata da Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, l’estate del 1996 su Storia Illustrata e precisata poi nel suo libro: “Quando le Botteghe erano Oscure”, Il Saggiatore 1997.
Caprara riferì una confidenza a lui fatta da Palmiro Togliatti, il quale gli avrebbe detto in privato che l’uccisore di Mussolini sarebbe stato Aldo Lampredi. Ma ancor più importante risultava un altra informazione data dal Caprara nel suo libro, ovvero quella che Celeste Negarville, ex direttore dell’Unità nel 1944 e futuro senatore comunista, gli disse che il Lampredi non c’entrava nulla con la morte della Petacci perché la donna era stata uccisa “da un altra parte”.
L’altra novità venne fuori nel 1988 dall’ex partigiano Giovanni Orfeo Landini, Piero, che rilasciò una clamorosa rivelazione, sinceramente poco attendibile. Raccolta da Fabrizio Bernini nel suo libro del 1998: “Così uccidemmo il Duce”, per le edizioni C.D.L. di Pavia, Landini descrisse fatti con orari, luoghi e attori alquanto diversi da quelli di Audisio ed inoltre raccontava di una doppia fucilazione (secondo il Landini, Mussolini e la Petacci erano già stati uccisi intorno alle 15,30 in un vicolo vicino casa De Maria). Nonostante le sue clamorose rivelazioni, alquanto contraddittorie e assolutamente non comprovate, questa nuova versione dei fatti, oltretutto di un discusso, ma importante ex partigiano, riscosse pochissimo credito.
Ma con il terzo millennio oramai i giorni della versione ufficiale erano contati.
Nei primi mesi del 2006, vennero resi noti alcuni rilievi riscontrati da una equipe del professor Giovanni Pierucci (Istituto di Medicina Legale dell’Università di Pavia) su foto e filmati d’epoca che, eseguiti con tecniche scientificamente all’avanguardia, dimostravano che Mussolini venne ucciso in canottiera (maglietta di salute) e forse con i soli pantaloni, e che alcuni colpi da lui attinti da vivo furono sparati quasi a bruciapelo. Un altra indiretta conferma alla testimonianza di Dorina Mazzola.
Fu la rivista Storia in Rete che a Maggio del 2006 pubblicò, con un articolo di Fabio Andriola, i resoconti della perizia di Pavia, intitolando significativamente l’importantissimo servizio: “Mussolini: una morte da riscrivere. Una macabra messinscena”.
Nel 2008, infine, il professor Alberto Bertotto di Perugia, dava alle stampe un pregevole libro “La morte di Mussolini: una storia da riscrivere” P.D.C. Editori, con il quale ipotizzava un tentativo di suicidio di Mussolini con il cianuro, al quale sarebbe seguita una sua sbrigativa eliminazione, dopo averlo trascinato sotto casa dei De Maria.
Il professor Bertotto, pur illustrando con cognizione di causa tutte le possibilità e condizioni che avrebbero potuto portare ad un tentativo di suicidio, non poteva però portare prove oggettive a sostegno di questa ipotesi (oltretutto la sua inchiesta è ancora in corso), ma resta il fatto che tutto il suo libro, riassunse ed espose molto bene anche la insostenibilità della “storica versione” di Audisio e la certezza di una morte di Mussolini e la Petacci al mattino.
Ma ancora il Bertotto, recentemente, entrava in possesso di un certificato di morte di Mussolini conservato nella parrocchia di Mezzegra, ma stranamente non firmato dal parroco ed oltretutto svelava che in quella parrocchia non esisteva nessun atto di morte della Petacci. Come se in curia non si fosse voluto avallare un avvenimento che era ben diverso da come la “vulgata” lo attestava (vedi Rinascita 21 e 22 maggio 2009).

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