1.300 detenuti in più rispetto alla fine del mese di gennaio per una popolazione detenuta complessiva che si avvicina rapidamente a quota 61mila unità. E’ questa l’attuale situazione nei 206 penitenziari italiani, che dai 59.060 detenuti presenti il 31 gennaio 2009 è passata alle 60.350 presenze del 28 febbraio 2009. “Forte preoccupazione” è stata espressa, al riguardo dal sindacato autonomo Polizia penitenziaria Sappe, la più rappresentativa organizzazione di categoria. Secondo Donato Capece, segretario generale del sindacato, “con una media costante di 1.000 ingressi al mese e in assenza di veri provvedimenti deflattivi, le carceri italiane rischiano di diventare roventi nei prossimi mesi estivi in cui potremmo arrivare ad avere oltre 65mila detenuti. Si tenga conto che la capienza regolamentare dei nostri penitenziari è di circa 43mila posti: averne oggi quasi 61mila vuol dire, soprattutto per gli agenti penitenziari che lavorano nella prima linea delle sezioni detentive, condizioni di lavoro particolarmente difficoltose, anche dal punto di vista della propria sicurezza individuale. Tanto più che gli organici del Corpo di Polizia Penitenziaria registrano carenze quantificate in oltre 5mila unità”. Per il sindacato il recente stanziamento del Cipe di 200 milioni di euro per realizzare penitenziari che sostituiscano le strutture più vecchie e fatiscenti, è un primo passo, ma non risolutivo: la questione generale del sovraffollamento penitenziario non può trovare esclusiva risposta nello sviluppo dell’edilizia. Tenendo conto che lo stato attuale consiste in un 51% dei detenuti imputati, in 46% definitivi ed in 3% internati, l’ipotesi avanzata dal Sappe è l’incentivazione di misure alternative, offrendo garanzie di sicurezza credibili sia dal giudice che le dispone, sia dalla stessa collettività. “Rinascita”, che ha tra i suoi lettori non soltanto cittadini italiani desiderosi di sicurezza e giustizia giusta e anche un buon numero di detenuti per motivi politici nelle carceri italiane, ma che non vuole affatto assumere per ineluttabile un ingessato sistema di amministrazione della giustizia che propone, attualmente, una vergognosa sintesi tra estreme pruderie giustizialiste e un radicale ed asociale garantismo, propone una attenta diagnosi e una terapia risolutiva del problema giustizia nella sua globalità e non soltanto carcerario. E’ evidente infatti che occorre in primis risolvere l’attuale anarchia legislativa. Riteniamo infatti soltanto un primo timido passo nella giusta direzione quello attuato il 20 febbraio scorso con l’emanazione di un decreto che ha depennato ufficialmente ben 28.889 decreti regi e luogotenenziali emanati tra il 1861 e il 1947 (fino adesso ancora vigenti e che imponevano per legge miglia di provvedimenti: dalle “formole” di intestazione degli atti del re... alla fondazione di “enti morali” inutili, come quello della Cassa Scolastica dell’istituto elementari di Locri). Riteniamo - con Saint-Just - che le troppe e lunghe leggi siano calamità pubbliche e che ne esistano ancora decine e decine di migliaia pressoché inattuali o superate o comunque da integrare in “corpi” di giurisprudenza dedicati ed esaustivi delle varie materie. E’ evidente infatti che occorre, in parallelo, riformare definitivamente la magistratura separando nettamente la giudicante dall’inquirente, attuando concretamente la responsabilità cogente degli atti giudiziari, allargando il numero dei giudici (oggi ne sono in attività giurisdizionale realmente piena circa 4500 in tutta Italia) anche con l’abolizione degli istituti provvisori come quelli “di pace” o “onorari”, demolendo la struttura corporativa-elitistica della magistratura stessa inserendovi senza alcuna precarietà quei cittadini della elefantiaca classe forense che più intendano la giustizia quale missione sociale. E’ evidente, in conclusione, che il problema non è dunque - o almeno non è solamente - la carenza delle strutture e degli effettivi penitenziari. Si tratta, in questo ambito, di prevedere soluzioni che rendano la pena, almeno nella maggioranza dei casi, un elemento della ricostruzione della società. Le carceri, così come immaginate e amministrate, sono diventate infatti ormai strutture di autoalimentazione della criminalità e comunque luoghi dove è difficile compiere il cammino di reinserimento dei detenuti nel convivere tra cittadini. Si badi bene: non si tratta di inventare nuove inutili sovrastrutture di “recupero sociale” (impieghi inutili,”affidamenti” e così via), ma di organizzare lavori a favore dell’interesse e della prosperità comune. E’ evidente insomma che la giustizia debba tornare ad essere giusta, che la pena debba essere certa e volta alla riparazione dei danni inferti al contratto sociale, che gli errori debbano ottenere riparazione concreta, che le legislazioni speciali debbano essere cassate. |