Il 19 maggio del 1923 l’allora presidente del Consiglio, Benito Mussolini, ricevette una rappresentanza delle partecipanti al nono Congresso Internazionale Femminile svoltosi nei giorni precedenti sul Palatino a Roma. Tra le astanti una, completamente vestita di rosso, consegnò al duce un fascio littorio composto, come prescriveva una vetusta tradizione, da dodici verghe di betulla legate da cinghie di cuoio rosso e da un’ascia di arcaica fattura1. Il capo del fascismo, al quale anni prima era stato profetizzato “Voi sarete Console d’Italia”, accettò, secondo le cronache di allora, di buon grado l’offerta che riproduceva fedelmente proprio l’insegna di quell’alta magistratura romana. L’episodio sarebbe, forse, caduto nell’oblio o, tutt’al più, annoverato dagli storici come uno dei tanti tentativi, operati da esponenti del fascismo, di riesumare simboli e miti dell’antica Roma, se non fosse che un misterioso esoterista lo menzionò in un celebre articolo come un vero e proprio atto di investitura che le arcane forze della Tradizione Romana vollero conferire a Mussolini2. L’indagine su questo enigmatico episodio e sui personaggi che ne furono a vario titolo coinvolti rivela un inaspettato intreccio tra archeologia, fascismo ed esoterismo. L’antefatto: quando, nel 1919, furono costituiti i Fasci di Combattimento, venne adottato, come insegna del nascituro movimento, il fascio. Si scelse, in un primo momento, il cosiddetto fascio repubblicano, simbolo già in uso durante i moti risorgimentali. In quel frangente la scelta dei patrioti italiani era caduta su questo emblema per una duplice motivazione: per rivendicare al movimento di liberazione nazionale l’eredità spirituale di Roma antica e per sottolineare la vicinanza politica e ideologica al movimento rivoluzionario francese, che, già nel Settecento, aveva eletto il fascio a proprio simbolo. In realtà i francesi avevano profondamente alterato la forma della vetusta insegna romana, ponendo, al posto dell’originaria securis, un’alabarda e aggiungendovi alla sommità il cappello frigio. L’erronea interpretazione dell’arcaico simbolo si protrasse, dunque, sia nell’ambito del movimento risorgimentale italiano che nel primo fascismo. Nel dicembre del 1922 l’allora ministro delle Finanze, Alberto De Stefano, ricevette il mandato di coniare una moneta che recasse impressa l’insegna della Nuova Italia, sorta in seguito alla Rivoluzione Fascista. Il ministro, insigne cultore della romanità, non volle che in tale solenne occasione fosse riprodotto un emblema che non rispondesse pienamente ad una simbologia romana, quindi, con l’approvazione dello stesso capo del governo, conferì al grande archeologo Giacomo Boni l’incarico di ricostruire il fascio littorio “nella sua storica realtà”, ovvero così come era ai tempi dell’antica Roma eliminando, dunque, tutti quegli elementi che ne avevano alterato, nel tempo, l’originaria forma. Boni sorrideva del fascio repubblicano che definiva “un’alabarda da palcoscenico in un mazzo d’asparagi” e spiegava come il fascio littorio “inseparabile emblema della più alta magistratura romana, era una cosa molto seria, che fa fremere quando si pensa al suo significato”. La restituzione del fascio alla sua originaria forma assunse, dunque, agli occhi dei suoi esecutori, un valore che andava ben al di là della mera ricostruzione archeologica, rivestendosi di profonde valenze religiose: si volle vedere in tale opera una consapevole riconnessione con le forze più arcane della stirpe italico-romana. Boni si gettò a capofitto nell’impresa, portandola a termine in tempi brevissimi con risultati eccellenti: coadiuvato dai suoi collaboratori, egli raccolse, infatti, una gran mole di materiale, catalogando tutte le fonti classiche che menzionavano la vetusta insegna e tutti quei monumenti antichi che ne riproducevano l’effigie3. Al termine del suo lavoro l’archeologo disegnò di proprio pugno il modello utilizzato in seguito per coniare la nuova moneta da due lire. Ma Boni non si accontentò del lavoro svolto e volle ricostruire personalmente l’arcaica insegna seguendo meticolosamente il rituale romano. L’operazione non fu facile, in quanto la tradizione esigeva che il fascio fosse composto da un’ascia di bronzo, da lacci di cuoio rossi e da dodici verghe di betulla bianca. Proprio il reperimento delle aste di questo particolare tipo di albero rischiò di compromettere l’esito dell’opera, in quanto la betvla alba, un tempo non rara nei boschi italiani, era allora quasi del tutto scomparsa dalla nostra penisola, tanto che si giunse a pensare (e questo ci fa comprendere l’importanza che questi uomini attribuivano alla riuscita dell’impresa) di organizzare una spedizione nelle lontane terre del nord Europa per reperirne alcuni esemplari. Non fu necessario: il professor Evelino Leonardi, altro insigne esponente del Tradizionalismo Romano, trovò un bosco di betulle bianche presso le rive dell’Aniene, a poca distanza da Roma. L’entrata in scena di Leonardi ci palesa come alcuni rappresentanti dell’esoterismo italico si fossero attivamente interessati affinché la ricostruzione del fascio condotta da Boni potesse essere portato a compimento. Evelino Leonardi fu un vero e proprio genio dai molteplici interessi: medico omeopata, umanista, archeologo ed occultista. Fu in contatto con varie personalità del mondo esoterico della Capitale: da Musmeci Ferrari Bravo a Guido di Nardo sino a Julius Evola. Assertore della tesi sulla Tirrenide e del Primato Italico, si prodigò per orientare il fascismo verso le più arcaiche tradizioni della nostra patria. Ed è proprio nell’ambito di quest’opera di vivificazione dei simboli e miti della tradizione romano-italica all’interno del nuovo regime che s’inserisce un suo articolo, pubblicato qualche anno più tardi, sul carattere sacrale del fascio littorio. L’opera di Boni, superate le prime difficoltà, proseguì celermente e l’insigne archeologo poté, finalmente, realizzare un’accurata riproduzione del fascio romano. Il 31 ottobre del 1923, nell’ambito delle celebrazioni del primo anniversario della Rivoluzione Fascista, Benito Mussolini, alla presenza dello stesso Boni, volle rendere omaggio ai Mani di Giulio Cesare, deponendo una corona d’alloro lì dove si ergeva il tempio dedicato al glorioso discendente di Venere. In tale solenne occasione i fasci littori, riportati alla loro originaria forma, fecero la loro prima apparizione pubblica. Di lì a qualche anno lo stesso simbolo, così come era stato ricostruito dal grande archeologo, tornò ad essere, dopo più di mille anni, emblema dello Stato4. L’opera di Boni a questo punto poteva dirsi portata a termine. Torniamo all’investitura data a Mussolini. Le cronache dell’epoca ci informano che la misteriosa signora vestita di rosso che consegnò il fascio al capo del governo era Cesarina Ribulsi, professoressa, archeologa, fascista e, elemento estremamente interessante, molto vicina ad ambienti esoterici della capitale. La Ribulsi fu, infatti, per lungo tempo segretaria personale della nobildonna piemontese Maria Camilla Mongenet, personalità di spicco dell’Accademia Romana della Fratellanza di Miriam, organizzazione fondata dal grande ermetista napoletano Giuliano Kremmerz. Ora, proprio, ad ambienti contigui al “Circolo Vergiliano” - così era denominata l’Accademia Romana della Fratellanza - sembra debba essere ricondotto il rituale d’investitura a Mussolini. A esponenti della medesima organizzazione è, inoltre, attribuito l’arcano rito volto a ridestare le Forze primigenie della Tradizione romana-italica, descritto nel famoso articolo di Ekatlos. Sarà proprio questo misterioso esoterista a stabilire in maniera esplicita un legame tra i vari episodi, argomentando che quelle stesse Forze che erano state evocate avevano voluto che la ricostruzione del fascio avvenisse secondo i vetusti rituali e che l’investitura del capo del Fascismo avesse luogo. Va, infine, sottolineato un ulteriore dato interessante: la Ribulsi, oltre ad essere contigua a gruppi tradizionalisti, era anche ben introdotta negli ambienti archeologici della Capitale, vantando, tra le numerose amicizie, quella con lo stesso Giacomo Boni. Ora, la vicinanza temporale tra i due avvenimenti (la ricostruzione del fascio da parte di Boni e la consegna dell’arcaico simbolo a Mussolini da parte della Ribulsi), gli stretti rapporti esistenti tra i due studiosi di archeologia, il coinvolgimento in entrambi gli accadimenti d’illustri esponenti dell’esoterismo romano, ci inducono a pensare che tra i due eventi sia intercorso un qualche tipo di legame. Ma al di là di queste considerazioni il dato più interessante che emerge dall’analisi di questi episodi è che in quel determinato periodo le forze primigenie della stirpe italico-romana tornarono a manifestarsi attraverso simboli e miti, influenzando profondamente il nascituro Movimento di Rinascita Nazionale.
Note dell’Autore 1 L’ascia, opera etrusca, era stata ritrovata qualche tempo prima, dalla misteriosa signora, nell’ambito di uno scavo archeologico presso Viterbo. 2 Cfr. Ekatlos, La Grande Orma: la scena e le quinte, in Krur, anno I, n. 12, dicembre 1929; pp. 353-355. 3 Il materiale raccolto fu ripreso, alcuni anni più tardi, da un discepolo del Boni, Antonio Maria Colini, il quale se ne servì per pubblicare una magnifica monografia, tuttora insuperata nel suo campo, dedicata al vetusto simbolo romano. Cfr. [A. M. Colini], Il Fascio Littorio, Libreria dello Stato 1934. 4 Se si esclude la brevissima parentesi della Repubblica Romana del 1848-49, che assunse il fascio, nella foggia repubblicana, come emblema dello Stato.
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