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Economia
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Il tramonto della civiltà del lavoro

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Giovedì 5 Febbraio 2009 – 15:30 – Vittorangelo Orati stampa

“E’ meglio non conoscere nulla che la metà di tutto”
F. Nietzsche, in Outline and Aphorism

Davvero, e senza esagerare, siamo combinati proprio male in questo mondo! Il mondo del capitalismo sub speciae “globalizzazione” che non solo sta distruggendo l’ambiente ma persino le risorse economiche di cui si vanta sia il miglior incubatore. E ciò in nome di un presunto “sviluppo” e un ancor meno credibile “efficiente uso delle risorse” di cui ogni crisi fa impietosamente inutile strame. Sviluppo e efficiente utilizzo delle risorse che vorrebbero rappresentare l’ “abito buono” di un modo di produzione alle cui “feste da ballo” partecipano sempre meno invitati alla faccia e a spese del crescente numero degli esclusi. Che del tutto scioccamente si fanno incantare dalla falsa felicità di tali “festini”, incollati alle “finestre” a pagamento (televisione sempre più spazzatura e giornali del gossip, naturalmente internazionale) appositamente organizzate per farli sbirciare angoli organizzati dell’intera kermesse che divora se stessa, tra falsi attori e falsi spettatori e comparse; tutti autentici voyeur sostanzialmente onanistici ispirati da cattiva pornografia travestita da impossibile promessa di erotismo. Ma se questo panorama non certo edificante non necessariamente sembrerebbe comporti la perdita di ogni speranza di un possibile riscatto o rinascenza, fidando su un mai dimostrato ciclico eterno alternarsi di “corsi e ricorsi storici” (quante specie son scomparse e quante ne vanno scomparendo in nome dello “sviluppo economico”, e non si vede perché la specie umana debba costituire eccezione) che fuori da cause metafisiche hanno sempre dovuto fondarsi sulla capacità di ricambi di élite, oggi di tali ricambi non pare vi siano possibili speranze. Per gran parte ciò è dovuto al trasformarsi degli intellettuali in “tecnici” e quindi nel loro arruolamento nella logica di mercato a salari variabili tra i laudatores temporis acti, riducendo i pochissimi indomiti ad ectoplasmi sociali. Come è destino di tutti quelli che non trovano “cittadinanza” nella “società dello spettacolo” che ha nella visibilità dei propri personaggi una precondizione essenziale, in mancanza rimanendo fuori dalla visuale offerta dalle suddette “finestre”. Ciò spiega l’altrimenti arcano delle stragi di massa o la violenza negli stadi. Estrema e pietosa ricerca della certezza di essere nella speranza di “apparire”. Forma certamente distorta ma senza alternative degli ultimi esclusi, cui il sistema non permette neanche di recitare da riserva delle comparse del modo di produzione vigente, vista la esclusione definitiva dall’ “esercito industriale di riserva” a cui il tardo capitalismo condanna chi vi esce senza potervi rientrare o a chi mai può entrare nel meccanismo della disoccupazione ciclica. Infatti nei singoli contesti una volta individuabili come “nazionali” lo sviluppo ha assunto o la forma della jobless growth (“crescita senza occupazione”), ovvero dello sviluppo fondato su lavoro neoschiavistico alias “precario”, dove la assenza di ogni garanzia del lavoro, persino ciclicamente fondata, è illusoria. Vi impera infatti quella che azzarderei di chiamare la “ sindrome del gladiatore” in epoca di tramonto della “civiltà del lavoro”: se non hai le caratteristiche psico-fisiche e l’addestramento per sopravvivere almeno a un primo “assalto” sei escluso da tale “civiltà”; e una volta ottenuto il “lavoro” appena ti indebolisci e/o c’è “carne più fresca” di ricambio ne sei escluso per sempre.
Dove poggio tanto pessimismo (opportuno) circa le scarse speranze di un possibile progresso? Purtroppo sulle prove inconfutabili della decomposizione della stesse strutture cui sin qui si è affidato agli intellettuali il compito di forgiare la cultura su cui edificare “riprese storiche”. Di più mostrerò che persino la fotocopia sbiadita se non illeggibile dell’intellettuale moderno sostituito dalla maschera dell’ “esperto” o “scienziato - per di più di “eccellenza senza pari” ufficialmente dispensata e riconosciuta dal “sistema” al suo massimo livello di competenze - non solo non è in grado di offrire prospettive di superamento dell’esistente ma non è neanche in grado di permettere la riproduzione semplice dell’esistente stesso: contrabbandando la più eclatante ignoranza per ciò di cui vanta expertise, con l’aggravante che di ciò non si accorgano neanche connaisseurs patentati del marchio d’élite che hanno il ruolo di cooptare i loro simili.
Passo ora alla dimostrazione del mio assunto. Mi pare che non sia in alcun modo contestabile che quella in atto è certamente una crisi economica devastante. Gli attoniti e colpevoli economisti(ci) fin a qualche tempo fa confidenti, poco importa se genuini o pentiti, nelle armonie e i miracoli autoregolativi della logica del mercato capitalistico oggi discettano e si dividono tra un salotto televisivo internazionale e l’altro su ipocrite diatribe cartacee solo nella prognosi della sua gravità. Sostenendo gli uni che sarà peggio della Grande Crisi del 1929 e gli altri che così non sarà, restringendo il campo del “Guinness” dell’entità in gioco al solo periodo successivo al secondo conflitto mondiale. Le amare risate intervengono innanzi tutto, anche se non principalmente, nei confronti di quelli che fino a poco fa erano “talebani” seguaci della “Mano Invisibile” e chiamavano un residuo e disperato manipolo di keynesiani “comunisti”, e sembrano ora keynesiani e “interventisti” (intervento pubblico nell’economia) convinti da sempre. Nel mentre delle loro nulle letture di prima mano di Keynes (foto), a parte forse della cattiva metabolizzazione di quel che ne resta del suo “modello” teorico nei manuali, si può star certi. Orbene che questi “pugilatori a pagamento” o più semplicemente marchettari della cattedra non abbiano ad avvertire alcun scandaloso imbarazzo scientifico nel denunciare i pericoli del protezionismo nell’attuale recessione mondiale, contemporaneamente approvando gli interventi a sostegno della domanda globale attuate dai governi, semmai criticando l’esiguità delle risorse a ciò devolute, avvertendo con alte grida della irrinunciabilità del “libero scambio”, è un incidente grave. Che già la dice lunga sull’inaffidabilità dei consiglieri e dei relativi principi che faut de mieux fanno proprio questo cumulo di eresie (i potenti della terra hanno lasciato il World Economic Forum con un appello corale: no al protezionismo, scrive per esempio da Davos Federico Rampini in prima pagina su “La Repubblica” del 2/209). Il surreale e tragico interviene però quando, invece che le “mezze calzette” rappresentate da abusivi cattedratici nostrani o di presunti più prestigiosi milieu, a dimostrare di non aver letto e studiato e in ogni modo non capito il Keynes di cruciali passaggi logico-analitici della sua General Theory è l’ultimo dei premiati con il nobel per l’economia: Paul Krugman, esplicitamente dichiarato e noto come keynesiano, con motivazione che fa riferimento ai suoi scritti in materia di economia internazionale. E ciò di cui tener conto è che ai nobel si perviene praticamente per cooptazione su segnalazione motivata dei precedenti studiosi insigniti di cotanto riconoscimento. Per cui, un po’ come gli italiani che si votano governi via via più scadenti, qui non si tratta solo di furberie di un singolo che riesce a strappare una votazione o un riconoscimento immeritati per puro caso, ma di ignoranza ai più alti livelli di competenza che questo mondo può vantarsi di produrre a livello di massa. Come vedremo tutti i viventi e precedenti premi nobel per l’economia non hanno mai colto che il background scientifico del Keynesiano Krugman (dove l’aggettivo keynesiano è consustanziale al suo gradiente di preparazione teorica) è tale da dimostrare inoppugnabilmente che questi non ha mai letto il fondatore del paradigma da lui stesso professato e applicato, o peggio che non l’abbia mai capito.
Krugman infatti, com’è stato ampiamente riportato dalla stampa mondiale, ha accusato la ricetta posta in essere in Usa nei confronti dell’attuale peste economica di essere quantitativamente insufficiente rappresentando un terzo della cifra realmente occorrente alla bisogna. Ciò senza minimamente avvertire l’Amministrazione Obama della assoluta incompatibilità tra misure d’intervento anticiclico keynesiano e il permanere dell’architrave della globalizzazione, cioè il free trade o libero scambio. A meno di non voler favorire i più tiepidi interventi anticiclici delle nazioni concorrenti sul mercato internazionale spendendo enormi risorse inutilmente in deficit domestici. Deficit che paradossalmente quanto più efficaci (e perciò rilevanti quantitativamente) dovessero essere in potenza, rispetto ai Paesi concorrenti sul mercato internazionale tanto più arresterebbero la caduta assoluta (deflazione) o relativa (caduta del saggio d’inflazione) del livello generale dei prezzi interni. Alimentando il PIL del “resto del mondo” trainato - senza aumento necessario del proprio deficit spending - dalle esportazioni verso gli Stati Uniti di merci a più buon mercato di quelle a stelle strisce provenienti dall’estero. In ragione qui della minore efficacia dell’ipotizzato maggior cinismo e/o indifferenza rispetto alla propria disoccupazione e a quindi alla caduta assoluta o relativa dei prezzi nel “resto del mondo”. Un caso eclatante in cui piuttosto che un singolo individuo (classico e emblematico il caso dell’evasore fiscale) che beneficia di un bene o servizio collettivo (un ricco che ruba il posto in ospedale a un povero per non fare aumentare il premio della sua assicurazione privata sulla salute) senza pagare in tutto o in parte il relativo onere (fenomeno detto da Mancur Olson del free rider) sarebbero gli stati meno keynesianamente virtuosi) a beneficiare della spesa pubblica e del deficit conseguente di altri stati keynesianamente (?) più virtuosi. Insomma molto più che inutile la politica anticiclica keynesiana da tutti ormai richiesta come tale e come irrinunciabile sarebbe controproducente, facendo degli Usa, o chi per essi, il primo stato al mondo che pratica, suo malgrado e grazie all’ignoranza degli economisti(ci) al meglio della loro valentia scientifica, suicidio economico e quindi suicidio tout court. Naturalmente il misticismo nell’occasione risiedendo nell’infondata fede che solo un miracolo cancelli le conseguenze di tenere insieme “botte piena e moglie ubriaca”, salvando gli abusivi economisti(ci) da meritai licenziamenti a divinis misteriis celebrandis.
In realtà Keynes nella “Teoria Generale” nel Libro VI Capitolo 23 (il penultimo ) dedicato per buona parte alla riabilitazione del mercantilismo e dei suoi stigmi protezionistici e quindi ad una esplicita autocritica della sua precedente “ortodossia” a favore del free trade, non manca di evidenziare il pericolo opposto a quello paventato da tutti gli economisti(ci), con o senza nobel. In tale capitolo Keynes oggettivamente mostra come tutto il suo paradigma (per esempio i benefici effetti di un attivo della bilancia commerciale nel tenere relativamente basso il tasso d’interesse onde stimolare gli investimenti e la propensione al consumo senza avvicinarsi alla “trappola del la liquidità”, da un lato, e l‘inflazione, dal lato opposto, che avrebbe evidentemente stimolato le importazioni annullando i benefici del surplus “mercantilisticamente” ottenuto) a favore di interventi statali volti al sostegno della domanda aggregata al fine di ottenere la massima occupazione, paradigma sviluppato nei capitoli precedenti, implichi la subordinazione logico/temporale dell’apertura agli scambi internazionali e al free trade all’ottenimento appunto della massima occupazione all’interno di un dato contesto. Per cui elevare il livello di occupazione e quindi elevare il PIL comporta l’esigenza di ipotizzare che tali interventi si attuino all’interno di un’economia opportunamente chiusa, ovvero, come argomenta Harrod, verso la fine della sua vita alla luce della sua sfiducia circa la possibilità di un piano internazionale in proposito, Keynes pensava addirittura che in materia di commercio internazionale fosse necessario per ogni singolo Paese di raggiungere la piena occupazione adottando un piano circa i suoi scambi con l’estero (Roy Harrod, John Maynard Keynes, Penguin Books, Harmondsworth, 1972,p.554). Keynes - e forse ai suoi tempi aveva ragione di fidarsi della competenza del “mondo accademico” – non accenna neanche alle conseguenze paradossali e controproducenti cui avrebbe potuto dar luogo il micidiale combinato disposto free trade+misure anticicliche keynesiane “in un solo paese”. Presumeva evidentemente che si trattasse di banali corollari per esercitazioni con “assistent professor” dopo le sue lezioni. Alla cui profondità scientifica non giungono non solo economisti(ci) cattedratici all’italiana - veri specialisti di “cordate” degne di non andare oltre l’altezza di un familiare “colle” - ma neanche la crème della crème rappresentata da tutti i premi nobel che hanno ponderato la “nomination” dell’ignorante keynesiano Krugman. In verità già anticipato su tale centrale materia dall’altro nobel keynesiano Stiglitz, come ho mostrato a partire dal 2003 (V. Orati Globalizzazione scientificamente infondata, Editori Riouniti, Roma 2003; Seconda edizione arricchita, Thyrus, Terni, 2008,vedi l’appendice) che non ha mai sospettato che la piena occupazione a livello di “buona globalizzazione” non è proponibile senza una radicale critica della dottrina del libero scambio. Q.E.D.
In conclusione una sola notazione che richiederebbe la restituzione del maltolto a schiere di economist(ci) e loro complici e prosseneti che in nome del laissez faire, free trade, deregulation, libera concorrenza sono stati complici delle panzane monetariste e del “Metodo”(?) che sostiene tutte le varianti della scuola neoclassica. Quel metodo che conseguentemente fece affermare alla signora Thatcher che lo ha incarnato che la società non esiste non potendola mai poter incontrare per strada. Il poco credibile - per inveterato prono viraggio a seguito di cambio di leadership americana - tardivo e iper-risibile keynesismo d’accatto come lo conciliano in aula gli economisti(ci) all’altro loro pilastro, quello che vuole il free trade come l’unico quadro concettuale entro cui può trovare realizzazione il più efficiente uso delle risorse che non solo si può ma si deve perseguire? Come conciliare l’ancor non rinnegato concetto di “società” con il ventiquattresimo e ultimo capitolo del magnum opus dell’economista cantabrigese dal titolo, “Note conclusive sulla filosofia sociale verso la quale la teoria generale potrebbe condurre” (corsivo mio). Certamente non è stato letto in passato, ma ora bisogna che se ne condivida uno dei messaggi che ridimensiona assiologicamente ogni privilegio dell’efficiente uso delle risorse, nuovamente trovando un altro esempio in cui la piena occupazione assume il valore di vincolo primario: “Quando sono occupati 9 milioni di lavoratori su 10 milioni disposti e capaci di lavorare, non vi è alcuna prova che il lavoro di questi 9 milioni sia mal occupato…” però poco più innanzi Keynes afferma che il vero problema non è quello dell’efficienza in gioco ma quello per cui “… dovrebbero essere disponibili compiti per il milione di lavoratori rimanenti” (J.M. Keynes, Teoria generale, Utet, Torino, 1947, p.337). Naturalmente in presenza delle accertate e dimostrate incapacità scientifiche degli economisti (ci) ritengo che in onore di Keynes (che pur non è la mia stella polare) lo si potrebbe su tale punto smentire, seppur quindi non in “generale”. Nel loro caso non potendosi certo affermare che è “… nel determinare il volume, non la direzione dell’occupazione effettiva, che il sistema presente ha mancato alla sua funzione”. Infatti nel caso particolare il sistema ha sbagliato in quantità e qualità.

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