Il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, ha depositato la sua candidatura per le prossime elezioni presidenziali, che si terranno il 26 aprile. La decisione non sorprende, ma il capo di Stato aveva comunque mantenuto la riservatezza fino all’ultimo momento.
Correa, insieme al vicepresidente uscente Lenín Moreno, tenterà di confermare il proprio mandato fino al 2013. La rielezione del presidente uscente è resa possibile dalla nuova Costituzione, approvata con quasi il 70% dei consensi a fine settembre scorso. “Nessuno pensa di rimanere al potere a vita, siamo semplici strumenti del popolo”, ha detto Correa, circondato dai suoi sostenitori mentre si recava a depositare la candidatura presso la Corte elettorale assieme al suo staff. I suoi avversari saranno il candidato indipendente Carlos González, il conservatore Luis Fernando Torres e la socialista Martha Roldós.
Noto economista formatosi nelle università di Belgio e Stati Uniti, ex ministro e professore universitario, Correa venne eletto nel novembre del 2006 con oltre il 60% dei voti, sconfiggendo il miliardario e amico degli Usa, Alvaro Noboa. Definito “l’amico di Chávez”, Correa si è subito impegnato nella rivoluzione bolivariana, lanciando anche nel suo Paese la formula del “Socialismo del XXI secolo”.
E una piccola (ma neanche troppo) rivoluzione, Correa l’ha iniziata quando ha definito “illegale” parte del debito estero del suo Paese, chiedendo l’intervento della Corte Internazionale di giustizia dell’Aja. Nessuno Stato, infatti, aveva mai messo in discussione il sistema perverso del debito estero, neanche quelli del Terzo mondo che ne hanno chiesto disperatamente la sospensione.
Un altro grande cambiamento per l’Ecuador è arrivato con l’approvazione tramite referendum della Costituzione del 2008, che, tra le altre cose, sanciva il principio per cui le imprese statali devono avere il controllo dei settori strategici, come il petrolio, l’elettricità, le miniere, i trasporti e le telecomunicazioni. A farne le spese le multinazionali straniere, in particolare quelle petrolifere, tra cui la spagnola Repsol. “Da oggi in poi non sono più le multinazionali che dettano le condizioni. Le condizioni le detta il governo. Il tempo della Repubblica delle banane è finito”, ha detto Correa circa un mese fa.
Strenuo oppositore del libero mercato (“È venuto il tempo di buttare nella spazzatura della storia il Fondo Monetario Internazionale e il Banco Mondiale, che sono i colpevoli di un’architettura ingiusta e diseguale, che ha impedito all’economia di crescere”), il presidente Correa è anche il principale sostenitore di una moneta unica per l’America Latina, che cancelli la necessità di ricorrere all’utilizzo del dollaro statunitense. Durante la recente visita di Correa in Venezuela, il presidente Chávez ha ribadito il suo interessamento a questo ambizioso progetto: “Sarebbe fantastico se si potesse chiamare Sucre, come la moneta in corso in Ecuador”.
Pur potendo contare di un forte consenso popolare (una recente indagine della società messicana Consulta Mitofsky dava l’indice di gradimento del presidente ecuadoregno al 70%), molto probabilmente Correa dovrà combattere con le ingerenze degli Usa.
Da Washington, infatti, non vedono di buon occhio questo presidente poco più che quarantenne, esperto economista, che critica la globalizzazione (“che non ha mai cercato di costruire una società planetaria, ma solo un mercato planetario”), e mal tollera la presenza nel suo Paese delle multinazionali straniere e delle basi militari statunitensi.