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Gli alpini italiani in Russia: una disfatta annunciata

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Venerdi 31 Luglio 2009 – 10:58 – Alberto Bertotto stampa
Gli alpini italiani in Russia: una disfatta annunciata

di Alberto Bertotto

Chi l’ha detto che le glorie di guerra nascono solo dalle vittorie, dalle invasioni e dalle spregiudicate imprese di conquistatori audaci che hanno guidato gruppi scelti di impavidi soldati d’acciaio? Spesso è vero l’esatto contrario. Valga, ad esempio, la storia degli alpini italiani il cui alone mitico affonda, per la modernità e in buona parte, in una delle più grandi disfatte militari del Novecento: la disastrosa ritirata di Russia. Quella nella quale i soldati italiani, ostacolati dalle truppe sovietiche del generale inverno, anelavano animosamente il ritorno in Patria dopo la sconfitta sul Don. Una tragedia, la fotografia dell’inadeguatezza fascista al secondo conflitto mondiale diventata un’epopea evocativa e riassuntiva delle tante virtù umane e guerresche dei combattenti di montagna per eccellenza. Proprio il tentativo disperato degli alpini di tornare alle proprie famiglie, senza i collegamenti con gli alti comandi e affondando nella neve con le scarpe di cartone, è diventato una leggenda eroica della memoria nazionale: ma la leggenda non è stata la spedizione d’aggressione all’Unione sovietica voluta da Mussolini e tentata da quegli uomini, ma bensì è stata il loro drammatico ripiego dopo l’insuccesso militare sul campo. L’epos delle rievocazioni belliche e letterarie, non a caso, sta solo in quel proibitivo ritorno al focolare domestico. Era cercato disperatamente, ma doveva spezzare un assedio implacabile, essendo i russi votati all’annientamento totale delle truppe dell’Asse che avevano assediato la loro Patria, la Madre Russia. Quei reparti italiani sfiniti, spesso allo sbando, che non rappresentavano più un esercito invasore, ma un gruppo di uomini in fuga da una guerra rovinosa e, certamente, più grande di loro, sono diventati una saga: una saga sono state, infatti, “le centomila gavette di ghiaccio”, come ha scritto Giulio Bedeschi, e non l’attacco nazifascista alla Nazione dei Soviet. Nulla di nuovo sul piano storico, certo. La ritirata di Russia, pertanto, assomiglia molto di più ad un altro ritorno verso le proprie terre, quello compiuto dai mercenari greci (non è un paragone, ma l’esempio calza), nota come la marcia dei diecimila, intrapresa, nel 401 a. C., dopo lo sfortunato attacco ellenico contro i persiani. Questa storia, altrettanto dolorosa, è stata magistralmente raccontata nell’Anabasi dallo storico e scrittore ateniese Senofonte.
Gli alpini sono un corpo militare, ma li amano o quanto meno li rispettano anche coloro che nutrono nel più profondo dell’animo certi sentimenti pacifistici (no global). Sarà perché la loro presenza e la loro immagine da mezzo secolo sono strettamente legate a interventi decisivi in occasione delle grandi emergenze (catastrofi) che hanno colpito duramente il nostro Paese; sarà perché l’amicizia, la solidarietà e l’allegria li accompagnano e diventano contagiose nelle loro “oceaniche” adunate nazionali; sarà perché l’amore per la montagna affratella tutti, facendo gli estranei diventare amici anche se non si conoscono nemmeno di vista. Ma c’è una certezza consolidata: per gli alpini abbiamo tutti una vivissima simpatia. Ha scritto tempo fa Ettore Botti sul “Corriere della Sera“ parlando degli alpini in Russia : “Ed è dalle testimonianze degli scampati, che emergono gli elementi della metamorfosi, apparentemente paradossale, capace di trasformare un esercito sconfitto in un esercito di eroi”. Specialmente nel corpo degli alpini, il loro spirito di sacrificio, d’adattamento e d’abnegazione è assai accentuato. Il loro senso dell’onore è più alto delle circostanze e delle ideologie (come spiegare, viceversa, l’accanimento nel mettere in salvo le bandiere, l’insegne, le medaglie a qualunque costo, perché non cadessero in mani nemiche?). La speranza che nutrivano era quella di salvarsi. Sì, certo, è stato soprattutto questo l’umanissimo desiderio che hanno avuto le penne nere, cioè quello di portare a casa la pelle, subito, se possibile, senza dover sopportare le gravi sofferenze della prigionia nei terrificanti gulag sovietici. C’è una cosa che gli alpini, sia in armi che in congedo, riconoscono come riservata solo a loro stessi e che li distingue dagli appartenenti a tutte le altre forze armate italiane: il caratteristico cappello sul quale spicca l’immancabile penna nera, cappello che essi indossano con orgoglio e con fierezza consapevoli di suscitare ammirazione mista ad una punta d’invidia. Accanto al cappello, simbolo evidente e visibile, si sono nel tempo aggiunti altri emblemi che sono entrati a far parte della tradizione: la “Preghiera dell’alpino”, scritta evidentemente in un periodo storico in cui nobiltà e grazia dei sentimenti venivano espressi in forma enfaticamente retorica, e il canto “Valore alpino”, meglio noto come “Trentatré”. A proposito di quest’ultimo inno bisogna ammettere che gli alpini hanno sempre preferito ascoltarne o eseguirne la musica, suonata da tutte le bande, piuttosto che cantarne le parole dal sapore un po’ troppo militaresco. Ma da dove viene fuori il titolo “Trentatré”? Si dice che un maestro di banda chiedeva ai suoi suonatori di eseguire, fra i tanti pezzi in repertorio, quello contrassegnato con il numero 33: “Suoniamo il 33!”, diceva tutto contento. Trattandosi di un brano eseguito frequentemente, il numero rimase associato al refrain musicale come titolo. Sarà vero?
Una premessa è indispensabile: furono paradossalmente i successi delle forze navali inglesi nel Mediterraneo a mutare le strategie italo-tedesche nell’ambito dello schieramento bellico della seconda guerra mondiale. Si era visto chiaramente che il numero delle forze armate di Mussolini appiedate nel deserto libico-egiziano era stato più un tragico svantaggio che non un punto di forza per gli italiani. Il soldato in panne sulle infuocate sabbie africane senza trasporti, senza benzina e senza acqua era solo un soldato morto o comunque disperato. Non era in grado di resistere per più di qualche mese agli assalti delle truppe inglesi comandate dall’astuto maresciallo Harold Alexander. La mancanza di mezzi corazzati, di supporto aereo e la tragica continua lotta per trasportare il carburante dal continente o dalla Sicilia era divenuta un’ossessione oppressiva. In tale situazione, lo stesso Adolf Hitler cominciò a delineare una nuova strategia nell’immenso spazio eurasiatico dell’Urss, quella di avanzare a Sud attraverso la fertile Ucraina per giungere ai grandi giacimenti petroliferi del Caspio e, attraversato il Caucaso, per piombare in Medio Oriente dove i tedeschi, fra gli arabi iracheni ed i palestinesi, godevano di ampie simpatie per la loro dichiarata politica antiebraica. Attraversare il Volga e valicare il Caucaso non sembrava più un’impresa impossibile anche perché la retrovia dell’operazione militare sarebbe stata il Mar Nero ed una Turchia dalle forti simpatie per la Germania nazista (e lo sarà fino alla fine).
Il paradosso della situazione per l’esercito italiano era che a parte le divisioni dei carristi e dei paracadutisti pronte ad essere impiegate in Nord Africa, i migliori reparti rimanevano inutilizzati in Italia o nella guerra partigiana balcanica. In modo particolare il corpo d’armata alpino, che perfino i tedeschi ci avevano sempre invidiato, sembrava la truppa grigioverde più idonea ad essere impiegata in questa grande strategia hitleriana che prevedeva di portare la guerra direttamente sulle strade di Mosca. Tutti sanno che una delle cose che permise la distruzione delle forze naziste fu la smania di Hitler di riuscire là dove anche Napoleone fece cilecca: conquistare la Russia. Una curiosità: l’Operazione Barbarossa, l’invasione della Russia, aveva un carattere economico. Lo conferma il fatto che l’attacco non scattò, come era consuetudine, all’alba di quel 22 giugno del 1941, ma bensì durante il giorno, cinque minuti dopo il passaggio del confine russo-tedesco, previsto per quella data, da parte dell’ultimo convoglio di vagoni che contenevano materie prime per la produzione industriale nazista. Erano i rifornimenti che l’Unione sovietica si era impegnata a fornire alla Germania secondo gli accordi del Patto Molotov-Ribbentrop (23 agosto del 1939).
Durante i secoli gli Stati dell’Est europeo sono sempre stati oggetto di ripetuti attacchi; nel 1242 l’Ordine Germanico dei Cavalieri Teutonici attaccò la Russia, ma essa sotto il comando del giovane quanto abile Aleksandr Nevskij (principe di Novgorod e di Vladimir) si impose nella battaglia del lago ghiacciato Peipus; gli invasori, di gran lunga meglio armati, dovettero ripiegare. Ancora nel 1704, Carlo VII di Svezia avanzò attraverso la Carelia, ma l’Imperatore Pietro il Grande organizzò il contrattacco e annientò l’avanzata svedese.
Nel 1812 fu il turno della Francia: le armate di Napoleone Bonaparte, dopo aver sgominato mezza Europa, avanzarono in direzione di Mosca che però le accolse con le fiamme e con la miseria più nera. I conquistatori dovettero ritirarsi per salvare la propria pelle. Ancora l’esercito tedesco nel 1914 ritentò l’impresa: il Kaiser Guglielmo II ordinò l’avanzata verso il grande e placido fiume Don. Il popolo russo si trovava schiacciato dall’invasore e dalle lotte interne; solo la repentina capitolazione del Reich permise la restituzione della ricca Ucraina, anche se dovette cedere i territori occupati dopo la guerra polacco-sovietica del 1920-1921. Ma li recuperò nel 1939 a seguito di un protocollo segreto: il Patto decennale di non aggressione reciproca tra la Russia e la Germania (quello firmato da Joachim von Ribbentrop e V. Michajlovic Molotov).
La domanda che ci si pone è sempre una sola: perché la Russia è stata soggetta a così tanti attacchi? Perché ha suscitato tanto interesse nei popoli europei in espansione? La risposta è univoca: era la perpetua ricerca del Lebensraum, cioè dello spazio vitale. Basta osservare la fisionomia della Russia e si spiegano così i molti e ripetuti interessi verso le lande desolate dell’Est sovietico. Esse occupano 1/6 della superficie terrestre. In quelle regioni vi è una ricchezza smisurata di materie prime, a partire dall’oro e dall’argento fino ad arrivare al rame, al ferro, al legname, al carbone ed al petrolio.
Le immense pianure sovietiche sono ricche di generi alimentari, tra cui primeggia il grano. Anche l’allevamento del bestiame è florido, producendo ottima carne e calda lana. I Russi (193 milioni nel 1941) erano la fusione di innumerevoli culture, diverse tra loro, ma con il tempo unite in un medesimo afflato cameratesco: il sentimento dell’unione nazionale. Non interessava se fossero lapponi, eschimesi, ucraini, armeni, curdi, turcomanni o mongoli. Erano tutti un solo popolo e amavano tutti allo stesso modo la loro terra natia. Nel 1941 come nel passato, tale territorio sconfinato, composto dall’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, faceva gola anche ad Adolf Hitler. Nel suo “Mein Kampf” aveva proclamato: “Quando parliamo di nuovi territori dobbiamo pensare alla Russia, il destino stesso ci indica quella via”. Per questo ai soldati tedeschi venne propagandisticamente detto che l’invasione doveva essere attuata perché la Russia voleva rendere bolscevica la Germania del Fuhrer berlinese.
Per la completa conquista dell’Est, bisognava prima impossessarsi delle terre confinanti e di tutte quelle Nazioni che si frapponevano tra la Russia e la Germania. In questo senso il pieno controllo dei Balcani era strategico e vitale. Essi risultavano molto importanti per la geopolitica, ma anche necessari economicamente: oltre ai vasti campi di grano, l’Ungheria aveva la bauxite, la Romania il petrolio, la Bulgaria fondamentali basi marittime sul Mar Nero. Nel marzo del 1941, con impegni diplomatici e tradimenti di capi di Stato, tutti questi Paesi gravitavano nell’orbita di Berlino. Mancavano solo la Iugoslavia e la Grecia. L’Italia si incaricò di occuparsi di quest’ultima. Il Duce inneggiò alla vittoria: “Spezzeremo le reni alla Grecia”. Non andò così. L’attacco fu un fallimento, anzi i soldati ellenici, con le loro buffe divise, contrattaccarono e entrarono in Albania. Hitler, infuriato per l’umiliante impresa bellica dell’alleato fascista e per il forzatamente ritardato attacco all’Unione sovietica, inviò un ultimatum alle piccole sacche di soldati greci resistenti che in ogni caso mantennero le loro posizioni iniziali. La Germania non ebbe pietà, sferrò l’offensiva e devastò intere regioni. Anche un corpo di spedizione inglese, venuto in aiuto ai greci, fu obbligato a ripiegare in Egitto in tutta fretta. Alla fine di aprile la svastica nazista sventolava su Atene. L’Europa orientale era ormai tutta nelle mani tedesche. Era quindi giunto il turno di avanzare contro la terra dei Soviet. Il 22 giugno su un fronte che partiva dal Mar Nero e arrivava al Baltico vi fu un attacco simultaneo, integrato, a Nord, dalle truppe amiche finlandesi. 12 milioni di soldati dell’Asse marciavano, avendo tre obiettivi: Leningrado, Mosca e Kiev. Il 7 luglio il generale tedesco Fedor von Bock raggiunse Smolensk, praticamente l’ultimo baluardo prima di Mosca, mentre il generale Gerd von Rundstedt completava l’occupazione della fertile Ucraina.
L’avanzata dei reparti tedeschi era fulminea e devastante. Tutto ciò portava a ritenere una vittoria come vicina, ma la situazione era, tuttavia, molto diversa. L’esercito tedesco, come nel caso inglese, si trovava di fronte a un popolo che era disposto a perdere la terra, ma non la propria indipendenza. Dopo un primo disorientamento, causato dall’impreparazione militare e dal soverchiante potenziale bellico tedesco, le truppe sovietiche indietreggiarono, logorando allo stesso tempo il nemico nazista. Prima di fuggire bruciarono e distrussero tutto ciò che poteva essere utile all’invasore. I pozzi petroliferi vennero resi inservibili, le centrali elettriche e le dighe, ultimate dopo anni di lavoro, vennero trasformate in pietrisco. Se nelle vaste pianure trovavano campo aperto, i carri armati tedeschi si rivelavano inservibili nelle città, laddove ogni cittadino e non solo l’esercito resisteva nelle strade, nelle piazze e nelle case. Dovunque era possibile bisognava decimare gli assalitori, anche ricorrendo ai combattimenti corpo a corpo. Le città vennero trasformate in roccaforti per i trinceramenti e per il sabotaggio. Odessa e Sebastopoli inchiodarono per mesi l’11a armata del generale Erich von Manstein. Solo tardivamente questa poté raggiungere il Mar Nero. La tecnica della terra bruciata, utilizzata contro Napoleone, venne impiegata di nuovo e con ottimi risultati. Tutto il popolo, dai bambini agli anziani, chiamato a raccolta dai discorsi patriottici di Stalin, si impegnò nello sforzo bellico. Arrivato l’inverno, le parti si scambiarono, i tedeschi iniziarono a difendersi perché i sovietici avevano dato l’avvio al contrattacco. Quello che era accaduto centocinquanta anni prima venne replicato. Se i tedeschi avessero letto “Guerra e pace”, forse avrebbero previsto la loro sorte: la sconfitta e la morte. La città di Mosca, distante solo 30 chilometri dal fronte, venne difesa con accanimento e nessun soldato tedesco vi riuscì a entrare da conquistatore. Il contrattacco del generale russo Georgy Zhukov si giovò di nuove truppe provenienti dalla Siberia. Addestrate al freddo e quindi adatte al tipo di guerra in cui vennero impiegate, non solo difesero la loro capitale, ma iniziarono anche un assalto micidiale contro le stanche e logorate divisioni tedesche paralizzate dal polare inverno russo.
Vale la pena di sottolineare un fatto: fin dall’inizio dei colloqui italo-tedeschi, relativi alla formazione dell’armata italiana da impiegare i Russia, veniva concordato in maniera chiara ed inequivocabile che le divisioni italiane dovevano essere impiegate a Sud del grande spiegamento tedesco che comprendeva in quest’area anche alcune armate romene ed ungheresi. I nostri alpini avrebbero operato nel Caucaso, una zona montana impervia in cui anche gli alpenjaeger tedeschi avevano avuto notevoli problemi ad avanzare e dove, oltre alla simbolica conquista montana dell’Elbruz, si erano fermati in attesa di rinforzi. Le nuove divisioni italiane giunte in Unione sovietica ebbero subito problemi specie per quanto concerneva il loro trasferimento verso il lontanissimo fronte ed il concentramento in un’area ancora più priva di abitanti della stessa Ucraina. Tra la fine di luglio ed i primi di settembre del 1942 una sgradevole notizia si diffondeva, però, fra gli alti comandi delle divisioni italiane. L’ARMIR non sarebbe stata più destinata a combattere nella zona del Caucaso, ma bensì su un ampia ansa del Don lunga quasi 300 Km. (poi ridotti a 270) per prendere il posto, in un luogo strategico chiave dell’intero fronte, delle divisioni tedesche che erano in gran parte fornite di mezzi corazzati. Solo una divisione panzer di truppe naziste sarebbe rimasta con i soldati di Mussolini data la ben nota assoluta mancanza di carro armati delle truppe fasciste. Stavolta non si poteva però accusare di imprevidenza lo Stato Maggiore italiano specie per quanto riguardava l’impiego del nerbo dell’armata e cioè le divisioni alpine da sempre abituate a muoversi in luoghi impervi privi di strade ed a spostarsi con le salmerie e con le armi someggiate a dorso dei loro leggendari muli. Ricorda Giorgio Vitali: “I compiti dell’ARMIR in Russia erano due: il corpo d’armata alpino avrebbe dovuto occupare le alture del Caucaso, catena montuosa che si erge a protezione dei pozzi petroliferi di quella regione, mentre il resto dell’8a armata italiana avrebbe avuto il compito di occupare Tbilisi, capitale della Georgia, e sostenere il colpo di Stato degli indipendentisti contro il regime dei Soviet. Ma per il buon esito di questi piani ‘ufficiali’, Mussolini non avrebbe potuto adottare una propria strategia autonoma perché l’armata italiana in Russia sarebbe stata sottoposta al comando germanico”.

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