Barack Obama, pseudo candidato del popolo, come annunciato in campagna elettorale, ha deciso di andare avanti in una lotta senza quartiere, almeno a parole, ai paradisi fiscali. In questa sua crociata l’idolo delle anime belle del progressismo internazionale, il cui atto più significativo è stato però quello di regalare soldi alle banche che avevano speculato, ha identificato il suo primo bersaglio nella Svizzera, entrando così a pie’ pari nella controversia che oppone il fisco statunitense all’Ubs, l’Unione banche svizzere, il primo gruppo creditizio elvetico. Presso l’Ubs, è l’accusa più o meno fondata di Washington, tengono un conto corrente oltre 50 mila cittadini americani approdati nella Confederazione per sfuggire al fisco Usa particolarmente inflessibile e vorace. L’Ubs ha dovuto già pagare una multa di quasi 800 milioni di dollari a fronte dell’accertata presenza di circa 300 cittadini Usa, tanto distratti da lasciare in giro segni tangibili della loro presenza nel Paese del cioccolato. L’Ubs ha dovuto quindi abbozzare su quei nomi per i quali era ormai inutile negare ma avvalendosi della normativa sul segreto bancario si è fieramente rifiutata di consegnare agli inviati di oltre oceano la lista di tutti i propri clienti a stelle e strisce. L’unico strumento che Obama e i suoi possono utilizzare è quello di minacciare di bloccare tutti i beni e le attività finanziarie dell’Ubs negli Usa se gli svizzeri non scenderanno a più miti consigli. Tanto che proprio ieri si è raggiunto un accordo extragiudiziale in virtù del quale l’Ubs offrirà agli Usa una lista di “appena” 5 mila nomi. In realtà, anche su pressione dei governi europei, negli ultimi la Svizzera ha molto allentato le maglie sul segreto bancario e collabora con la magistratura dei Paesi dell’Ocse quando si è in presenza di una accertata evasione fiscale. Se gli Usa se la pigliano con la Svizzera, la Gran Bretagna se la prende con il Liechtenstein. Il governo di Londra ha firmato un accordo con quello di Vaduz, che ne aveva già firmato uno con la Germania, in virtù del quale i cittadini britannici che ammetteranno di avere conti nel principato (stimati a 2,5 miliardi di sterline) saranno chiamati a pagare multe molto minori di quelle finora previste. Questa intransigenza di Washington e Londra nei riguardi dei paradisi fiscali europei è a dir poco incredibile e testimonia della faccia di bronzo dei due Paesi maggiormente responsabili della crisi finanziaria scoppiata lo scorso anno. Una crisi determinata dalle speculazioni orchestrate nei paradisi fiscali dei Caraibi (come Cayman, Barbados, Bahamas e Antigua) e in quelli europei (come Jersey e Guernsey) tutti, guarda caso, sotto il controllo di fatto della finanza anglo-americana. Gli stessi paradisi fiscali attraverso i quali transitano i capitali frutto del traffico internazionale di stupefacenti movimentati dai narcos colombiani e messicani. Di conseguenza è più che lecito concludere che l’intransigenza di Usa e Gran Bretagna sia determinata in realtà dalla volontà di colpire i paradisi fiscali concorrenti e soprattutto quelli europei continentali, compresi Andorra e Monaco. Il tutto unito alla tradizionale arroganza anglo-americana, alla pretesa di essere esclusivamente loro due a stabilire chi di tali paradisi fiscali debba stare nella lista nera dei cattivi e chi invece in quella grigia di quelli che collaborano. La stessa arroganza che porta i due governi a stabilire biblicamente quali sono gli Stati “canaglia” da abbattere o da convertire. Un copione già visto molte volte ma che, per l’ennesima volta, ha dimostrato di essere basato sul nulla. |