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L'EUROPA, UNA VOLONTÀ UNICA, FORMIDABILE, CAPACE DI PERSEGUIRE UNO SCOPO PER MIGLIAIA DI ANNI. NIETZSCHE
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Grand Hotel Dushanbe

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Venerdi 31 Luglio 2009 – 10:04 – Pietro Fiocchi stampa
Grand Hotel Dushanbe



Si parlava una volta di bratskie narody, i tanto celebrati popoli fratelli. Una volta. Ora tira tutt’altra aria. Difficile non accorgersene. Basta pensare alla Bielorussia di Lukashenko, che un giorno dice di voler avvicinarsi all’Ue, per poi giurare fedeltà a Mosca il giorno dopo e finire per flirtare con Washington passato il fine settimana. I casi più eclatanti però sono quelli dell’Uzbekistan di Karimov e del Turkmenistan di Berdymukhammedov, sempre pronti a commercializzare idrocarburi e amicizia con i migliori offerenti, di una parte o dell’altra, senza badare troppo ai dettagli. L’Asia Centrale, instabile quanto imprevedibile, è ora più che mai oggetto di mire concupiscenti da parte della Casa Bianca. Lo ha detto chiaramente qualche giorno fa il vice presidente nord-americano Biden, parlando del dovere che spetta agli Usa di far sì che le ex repubbliche sovietiche dell’area diventino realmente indipendenti (da chi?) e del promettente rapporto di cooperazione (o sfruttamento?) che si profila all’orizzonte. Sappiamo però che Mosca potrebbe avere a proposito buoni motivi per risentirsi. Del resto da quando Alessandro II si lanciò con successo alla conquista delle steppe centro-asiatiche, tutta la regione bene o male è considerata dai russi come casa, o meglio, come il cortile di casa, di cui bisogna avere la massima cura. Abbiamo assistito alla vicenda delle basi militari, in Kirghizistan, all’impegno che ci ha messo il Cremlino per riconquistare terreno sul campo. E ora è il turno del Tajikistan, piccolo ma strategico Paese, uscito da poco più di un decennio da una quinquennale feroce guerra civile. Da ieri il presidente russo Dmitrij Medvedev è nella capitale Dushanbe per una visita di due giorni, per parlare di collaborazione militare, energetica e dell’uso della lingua russa in loco. Non è però l’unico ospite del presidente tajiko Emomali Rakhmon (foto con Medvedev). All’adunata sono presenti anche i leader di Pakistan e Afghanistan. Un evento degno di nota. Medvedev ha definito l’incontro “simbolo di fiducia” che da inizio ad un “nuovo format di cooperazione, di dialogo”. Parole dal capo del Cremlino che il padrone di casa deve aver senz’altro apprezzato. Quasi una grazia dal cielo. Solo un paio di giorni fa il presidente Rakhmon aveva fatto un appello alla nazione, esortando la cittadinanza a fare scorte di cibo per almeno due anni. La crisi è dura e non fa sconti, bisogna essere preparati, aveva detto il previdente presidente.
Ma qui non si tratta di crisi, di quella di cui si parla da qualche tempo e che ci riguarda tutti, è da vent’anni che il Paese è sull’orlo del baratro. E ora la Russia potrebbe essere una soluzione, un buon rimedio per sfuggire alla fame. Sempre che ci si sappia comportare con un certo tatto. E questo non è da dare per scontato. Gli esperti di Mosca rimproverano infatti ai dirigenti tagiki di avere la propensione a rivedere le intese fondamentali in materia di difesa, cosa che desta al Cremlino qualche preoccupazione di troppo. La questione è delicata. E poi il Tajikistan chiede con fastidiosa insistenza alla Russia i soldi per sopravvivere, per arrivare alla fine del mese. La pazienza è messa a dura prova. Eppure qualcosa ci dice che i fratelli maggiori sopporteranno. Dopotutto ci sono ottimi interessi in gioco. Un grande gioco, accessibile solo a pochi.

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