Eppure è stata una bella Lucia di Lammermoor quella vista nelle magnifiche rovine delle Terme di Caracalla e la presenza massiccia di pubblico lo testimonia pienamente. L’eroina malinconica e “ossianica”, uscita dalla penna di Walter Scott, portata sulle scene del teatro lirico dal librettista Salvatore Cammarano, big del verso da utilizzare per la musica, e soprattutto dalle note smaglianti di Gaetano Donizetti, aveva le fattezze di Annick Massis, parigina dal fisico assai gradevole, e soprattutto dalla voce di soprano lirico, calda, morbida e vivamente coinvolgente, anche per la ricchezza di colorature che hanno evidenziato ancor più le sue qualità nella celebre scena della pazzia dove la sua voce gioca con altezze vocali di tutto rispetto. La Massis ha tracciato una Lucia credibile, emozionante, anche se penalizzata da una regia priva spesso di mordente. Sul piano espressivo e con la consueta efficacia interpretativa ecco Roberto Frontali, Lord Ashton, il crudele, eppure poi capace di compassione, fratello di Lucia. Ottimo baritono dalla carriera luminosa, Frontali ha giocato il suo ruolo con l’efficacia e il rispetto della pagina musicale imposto dall’autore. Stefano Secco era Edgardo. Non favorito dal fisico ( tanto piccolino quanto la Massis è alta ), ha saputo mostrare buona grinta e dopo un iniziale momento di difficoltà ha proseguito e poi concluso l’opera in maniera brillante. Non altrettanto può dirsi dell’ improprio e infagottato Arturo di Enzo Peroni. L’attesa all’inizio era per la soluzione scenografica, anche se l’opera non vive solo di scena o di regia. Ma le maestose rovine di Caracalla, l’impianto strategico del palco che utilizza due ruderi come colonne portanti attorno alle quali costruire lo spettacolo faceva sperare che la “gotica” vicenda di Lucia di Lammermoor si sarebbe avvantaggiata del sito. Non è stato così, ahimé! Ma andiamo per gradi. Lucia di Lammermoor è una storia che ha tutti i crismi della letteratura fantastica, c’è naturalmente una fanciulla costretta dalla ragion di stato impersonata dal fratello Ashton a unirsi in matrimonio con un delfino francese per salvare la casata, c‘ è un fantasma insanguinato presente come visione e incombente sulla miseranda, la quale è innamorata di Edgardo, “ultimo avanzo di una stirpe infelice”, acerrimo nemico del fratello insensibile, che gli ha fatto uccidere il padre. Ora è il momento del distacco, presso la fonte, luogo d’elezione per la visione insanguinata, Lucia e Edgardo, costretto a partire, si scambiano il pegno di un amore indissolubile, assicurandosi reciprocamente che “verranno a te sull’aure i miei pensieri...”. Beh, la trama è fin troppo nota. Quando Edgardo ritorna trova Lucia in chiesa dove, per imposizione del fratello, che ha agito su di lei con un tranello e una menzogna e facendo le classiche pressioni morali, si è appena unita in matrimonio al tronfio e potente Arturo, il francese. Al giovanotto resta solo il piccolo conforto di maledire quelle nozze, rimproverando la ragazza per la rottura del giuramento e rinnegando quant’altro lo lega a lei. Lucia non regge alle emozioni, accoltella a morte sul talamo nuziale il neomarito, impazzisce e muore. Edgardo torna in tempo per la sepoltura e la segue nella morte, dopo avere allietato gli astanti con una splendida aria “Tu che a Dio spiegasti l’ali”. La tenera Lucia donizettiana presuppone una regia attenta a cogliere le dolcezze e le infinite sfumature che questo capolavoro belcantistico impone. Non è stato così nell’edizione vista a Caracalla, firmata dallo spaesato Pier Francesco Maestrini, disorientato dalla vetustà e dall’imponenza del sito archeologico, di cui ha completamente ignorato le oggettive possibilità espressive delle rovine, che sapientemente sfruttate avrebbe potuto chiudere il cerchio di quei caratteri tipici del gotico che l’opera anela di mostrare, che sono appunto le rovine. Quanto alla soluzione un po’ grandguignolesca della larva insanguinata nella fonte rappresentata da stracci colorati appare vagamente ridicola. Le scene miserelle e i costumi sono responsabilità di Carlo Savi. Avremmo voluto meglio illuminata la scena e una maggior cura nell’impianto di amplificazione che è apparso davvero carente, con le voci e le note orchestrali che arrivavano discontinue, deformate. Per ultimo un breve commento sulla direzione e la concertazione di Antonello Allemandi, che ha dovuto fare i conti con le carenze degli apparati tecnici.
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