Ma può, un ministro della Repubblica, vilipendere l’Italia, il suo inno nazionale, la sua bandiera? Può proclamare - ogni volta che gli salta il ticchio - la secessione, istigare alla sovversione delle istituzioni comuni, diffamare la gran parte del popolo italiano? Sì. In Italia ciò è consentito. Si badi bene, però. Non è consentito a ognuno di noi (la legge, in Italia, come noto, non è eguale per tutti, infatti...), ma soltanto a chi abita a Cocquio (quel Cocquio Trevisago ribattezzato Cocq in onore della “lingua” federalista pre-alpina). Insomma: è consentito soltanto al tecnico di radio Elettra ed ex senatur per antonomasia: a Umberto Bossi e a nessun altro. Al massimo ai suoi più stretti collaboratori - per esempio al collega, ora ministro, Roberto Calderoli, originario di Bergen de suta - viene delegato il vilipendio alle religioni altrui, con tanto di istigazione alla strage come accaduto a Bengasi. La Procura di Venezia, infatti, ha chiesto l’archiviazione per il reato di vilipendio ipotizzato nei confronti del senatur che, il 20 luglio scorso, al congresso della Liga Veneta, aveva a gesti e a parole mandato a fare in culo l’inno di Mameli e Roma. Vilipendere la Repubblica e i suoi simboli, dunque, nel preciso caso del senatur, non è reato. Se non esistessero, in questa stessa Repubblica, gravissimi precedenti penali (processi e dure condanne per mai dimostrate “associazioni sovversive”, per reati di pensiero, per stragi evidentemente non commesse, per “istigazioni” alla violenza, all’odio razziale o alla lotta di classe, per semplici provocazioni, quale quella dell’occupazione con un finto carro armato del campanile di piazza San Marco a Venezia da parte di una squadra di “Serenissimi”), della decisione della Procura di Venezia, ce ne fregheremmo anche noi. Ma vivere in un Paese dove la Giustizia ha mille pesi e mille misure e dove lupo non mangia lupo, ci fa vergognare.
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