Tutti lo dipingono come l’uomo nuovo, il leader che può portare gli Stati Uniti fuori dalla crisi nazionale e internazionale. Barack Hussein Obama, invece, nasconde ben altro dietro all’arte oratoria e alla tanto pubblicizzata capacità di infiammare le masse nel sogno della nuova America. Prima di tutto bisogna sgombrare il campo da un equivoco grossolano: la fazione democratica, incarnata in queste elezioni dal senatore dell’Illinois, non è il partito della pace. Anzi, tutt’altro. Obama ha fatto outing durante il secondo confronto televisivo tra i candidati nello spiegare la sua dottrina di uso della forza quando, badate bene, non c’è in gioco la sicurezza nazionale. Spiazzando il repubblicano McCain, Obama è rientrato a pieno titolo nel solco dell’antica tradizione interventista della sinistra americana, parlando come un pericoloso guerrafondaio: “Non sempre in gioco c’è la sicurezza nazionale, ma in ballo ci possono essere questioni morali. Se avessimo potuto intervenire in modo adeguato nell’Olocausto, chi tra noi avrebbe potuto dire che non avremmo avuto l’obbligo morale di intervenire? Se avessimo potuto fermare il Ruanda, avremmo dovuto considerare fortemente di agire”. Obama ha poi spiegato che “dobbiamo considerare che sia parte dei nostri interessi, dei nostri interessi nazionali, intervenire dove sia possibile, anche se ovviamente non saremo in grado di farlo ovunque e in tutte le occasioni, ecco perché per noi è così importante lavorare con gli alleati”. Il senatore democratico ha poi praticamente criticato Bush per non essere stato abbastanza radicale nell’applicare i principi della “lotta contro il male” anche al Pakistan: “Dobbiamo cambiare la nostra politica: non possiamo coccolare un dittatore, dargli miliardi di dollari e poi quello fa trattati di pace con i talebani e gli estremisti. Incoraggeremo la democrazia in Pakistan, aumentando i nostri aiuti non militari in modo che loro abbiano più interesse a lavorare con noi, ma insistendo sul fatto che devono andare a caccia di questi estremisti”. E infine, Obama ha ben chiarito che se individuerà il nascondiglio di Bin Laden e se il governo pachistano non sarà in grado o non vorrà prenderlo, non rispetterà la sovranità nazionale pakistana e non aspetterà autorizzazioni internazionali, ma deciderà per un intervento militare americano: “Se non lo fanno loro, dobbiamo farlo noi”. Spiegata la posizione interventista da vero poliziotto del mondo di Obama, non colpisce quello che si scopre andando a scavare un po’ nella squadra che lo sta appoggiando in campagna elettorale e che, in caso di vittoria, andrà a occupare i posti chiave degli Stati Uniti. Nello staff democratico spiccano tutte le personalità legate a Clinton, a quell’ex presidente che senza pensarci troppo attaccò il cuore dell’Europa. Lo spin doctor di Obama, William J. Perry, è stato ministro della Difesa dell’amministrazione Clinton. Sotto la sua guida, gli yankee hanno inviato i soldati ad Haiti nel ’94. E nello stesso anno sempre lui ha organizzato le operazioni militari statunitensi in Bosnia. Nello staff democratico figura anche Sarah Sewall, quel vice ministro della Difesa che con Clinton aveva ricevuto la delega alla Pace (!). Ed ecco il coordinatore della campagna di Barack: Denis McDonough, ex consigliere per la politica estera del senatore Tom Daschle, il superdelegato democratico noto come capofila della lobby dei biocarburanti, che ha pesanti ingerenze nei rapporti con l’America Latina. Il possibile portavoce della Casa Bianca in caso di vittoria, potrebbe essere Mark Lippert, ex Navy Seal rientrato dall’Iraq la scorsa primavera, uno dei fedelissimi di Obama, con ruolo chiave nei discorsi più importanti del candidato democratico. E ancora tanti sono i nomi clintoniani presi in prestito da Obama. Dietro al senatore dell’Illinois ci sarebbe anche l’ex segretario di Stato Madeleine K. Albright, che avrebbe anche portato nel gruppo Jonathan Scott Gration, l’ex generale oggi a.d. della Millennium Villages, un progetto che ufficialmente vorrebbe combattere la povertà in Africa. Anche sul fronte dell’economia i nomi vengono sempre dal passato: i principali consulenti sono Jason Furman, assistente speciale di Clinton per le politiche economiche con incarichi di spicco nella Banca mondiale, e William M. Daley, direttore della task force del Nafta con Clinton e successivamente all’entrata in vigore del trattato, ministro del Commercio. Entrambi si contendono la poltrona di ministro del Tesoro. Discorso a parte, poi lo meritano i finanziamenti di Obama. Anche se durante le primarie democratiche la lobby ebraica appoggiava la signora Clinton, il candidato democratico dalla sua ha una “buona” carta da giocare. Uno dei suoi maggiori finanziatori è infatti, niente di meno che l’ebreo ungherese Georges Soros, insieme all’uomo della Goldman Sachs, Eric Mindich. Non deve sorprendere questo fatto. Se è vero, infatti, che la lobby ebraica e sionista appoggia in gran parte i repubblicani, è altresì vero che lo speculatore Soros da tempo si è schierato ufficialmente contro i neocon, colpevoli secondo lui di “mettere in pericolo l’esistenza stessa di Israele”. E quindi secondo Soros serve un approccio più morbido proprio per aiutare Tel Aviv. Ecco spiegati i soldi al politicamente corretto Obama, che ovviamente ha anche detto pubblicamente di essere un “grande amico di Israele”. La lobby ebraica quindi si sarebbe spaccata in due fazioni, anche se sembra solo un modo per pilotare in ogni evenienza il voto statunitense. Ecco l’ennesima riprova del fatto che gli uomini nuovi non esistono, visto che negli Usa i presidenti vengono decisi dalle lobby. La differenza tra Obama e McCain potrebbe forse solo essere nell’approccio e negli interessi, tra fare la guerra con migliaia di marines o destabilizzare stati sovrani con i servizi segreti. In entrambi i casi, un futuro preoccupante per il mondo intero.
|