“Il principio più importante che voglio riconfermare è quello del rapporto storico e speciale fra Stati Uniti e Israele, che ho ribadito durante tutta la mia carriera e che non intendo soltanto mantenere ma rafforzare”. Con questa dichiarazione rilasciata al suo arrivo all’aeroporto Ben Gurion, il candidato democratico alla Casa Bianca Barack Obama ha tolto la maschera da colomba per indossare quella molto più conveniente e opportuna da falco, svelando un animo inconfondibilmente filo-sionista. Nessuno ora potrà accusarlo di poca decisione nei confronti dei nemici di Israele, come accaduto all’inizio delle primarie preparandogli un terreno tutto in salita. Soprattutto dopo che il senatore dell’Illinois, ieri, non ha mancato di ribadire neanche una volta la sua totale e piena abnegazione nei confronti dell’alleato statunitense. Anzi, al termine del suo incontro a Gerusalemme con il presidente israeliano Shimon Peres, l’aspirante presidente degli Stati Uniti ha riaffermato “il suo impegno costante alla sicurezza di Israele e la sua speranza di essere un partner efficace, sia nelle vesti di senatore americano sia di presidente, per contribuire a una pace duratura nella regione”, definendo un “miracolo che si è prodotto per noi” l’esistenza di Israele. E ancora, ha ribadito che sosterrà Gerusalemme come capitale di Israele. Affermazioni che vanno ben oltre le più rosee (o peggiori) aspettative. Nessun cedimento su nessun punto; Barack Obama ieri si è mostrato come il miglior amico di Israele e, allo stesso tempo, strenuo nemico dei nemici del suo amico. In cima alla lista nera, l’Iran. Il rappresentante degli Asinelli ha lanciato messaggi inequivocabili alla Repubblica islamica, sostenendo su tutta la linea le politica aggressiva di Tel Aviv. Sono lontani i tempi in cui il senatore di Chicago si appellava al dialogo: ora che ha intascato la nomination la priorità assoluta è assicurarsi il sostegno delle lobby di potere negli Stati Uniti e nel mondo. Già nell’intervista, rilasciata il giorno prima ad Amman, aveva difeso le sue dichiarazioni sulla necessità di affrontare la questione nucleare iraniana – la cosiddetta strategia del bastone e della carota – ma non aveva esitato a dichiarare in merito ad un possibile raid israeliano contro l’Iran che “Israele ha il diritto di difendersi”. Ieri, dopo una lettera aperta di Shaul Mofaz (attuale ministro dei Trasporti, ex della Difesa e possibile prossimo leader del Kadima) per avvertirlo del pericolo rappresentato dall’Iran e per sottolineare come con la leadership di Teheran valga solo “il linguaggio della forza”, Obama ha rincarato la dose sostenendo che un Iran dotato dell’arma nucleare rappresenterebbe “una grave minaccia”. Il candidato democratico ha giustificato anche il raid israeliano dello scorso settembre contro un presunto impianto nucleare in Siria rispondendo, nel corso di un’intervista rilasciata alla rete televisiva americana Cbs, che “vi fossero prove sufficienti che stavano sviluppando un sito nucleare o usando un modello simile a quello nordcoreano. Penso che queste siano decisioni che gli israeliani devono prendere”. Sugli argomenti in cima all’agenda statunitense e israeliana, il senatore afro è tornato anche nel corso della cena con il premier Ehud Olmert, dopo la breve visita a Ramallah dove ha chiuso il cerchio delle alleanze dei “giusti” incontrando, nella Muqata, le due pedine di Tel Aviv in Palestina, il leader di Fatah Mahmoud Abbas e il suo complice, incoronato da Washington, Salam Fayyad. Con loro anche il negoziatore Saeb Erekat. Anche in questo caso ha seguito per filo e per segno tutto il copione del caso, promettendo agli amici degli amici di essere un partner costruttivo nel futuro. Una prestazione, quella di Barack, che ha convinto i vertici israeliani tutti concentrati sulla visita del candidato democratico, molto più che per il suo rivale John McCain alcuni mesi fa.
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