Alcuni Paesi ed entità politiche arabe sembra ripongano la fiducia in un futuro migliore per l’area nelle mani del presidente eletto statunitense Barack Obama. Fiduciosi, evidentemente, nonostante di recente, da quel di Tel Aviv, siano arrivate al senatore democratico una serie di indicazioni in merito all’atteggiamento da tenere nei confronti di Vicino Oriente ed Iran, tutt’altro che ispirati a prospettive di dialogo, specie nei confronti di Teheran. Ieri il governo iracheno ha infatti chiesto al presidente eletto nordamericano di “aprire un canale di dialogo con l’Iran per risolvere i problemi pendenti e che minano la stabilità regionale”. Citato dall’agenzia irachena Aswat al-Iraq, il portavoce governativo Ali Dabbagh, in visita a Washington ha affermato che “è giunta l’ora di proporre una nuova, seria, calma politica dotata di una visione più aperta”, ed ha invocato l’elaborazione di “soluzioni” che non devono essere “imposte dall’esterno”, anche se non ha specificato se il suo invito fosse rivolto all’Iran o agli Stati Uniti. Nello stesso giorno la Lega Araba ha lanciato un appello a Barack Obama perché privilegi la ricerca di un accordo di pace globale nel Vicino Oriente fin dal suo insediamento, il 20 gennaio prossimo. Un portavoce della Lega Araba, Hicham Youssef, ha reso noto che i 22 membri dell’organizzazione panaraba hanno espresso la loro posizione sul conflitto vicinorientale in una lettera firmata dal ministro saudita degli Affari esteri, Saud Al Faysal e inviata a Obama. “La nuova amministrazione americana deve prendersi le sue responsabilità e per gli arabi è importante che si concentri sulla soluzione del conflitto arabo-israeliano”, ha dichiarato il portavoce precisando che la lettera spiega la posizione della Lega sul conflitto, fondata sull’iniziativa di pace araba. Il piano di pace arabo, d’ispirazione saudita, era stato presentato nel 2002 e rilanciato nel marzo 2007 e prevede una normalizzazione delle relazioni tra i Paesi arabi e Israele in cambio del ritiro israeliano dai territori arabi occupati dal giugno 1967, la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme Est capitale e una soluzione “equa e concordata” della richiesta di ritorno in patria dei profughi palestinesi. Tutte richieste che Tel Aviv non ha mai inteso, ne mai lo farà, prendere in considerazione. Se, infatti, da un lato il premier israeliano uscente (quindi privo di reali poteri) Ehud Olmert, paventa la possibilità di un ritiro dai territori occupati nel ’67 e la possibilità che Gerusalemme est diventi la capitale della Palestina, Tzipi Livni, capo di Kadima e aspirante premier lo smentisce regolarmente. Le richieste di Iraq e Lega Araba restano quindi nel novero delle dichiarazioni “dovute”, specie da entità che non intendono e non possono opporsi all’influenza statunitense nel Vicino Oriente. Il resto, la realtà dei fatti, è quella rappresentata da Hamas a Gaza, da Hizbollah in Libano, dalla Siria, da Teheran, quelli che non piacciono alla Casa Bianca e ai suoi alleati-sudditi. |