Il “processo di Oslo”, il tentativo di messa al bando entro il 2008 delle bombe a grappolo si è concluso lì dove era iniziato nel febbraio 2007, nella capitale norvegese. Un centinaio di paesi riuniti a Oslo hanno infatti adottato, tra ieri e oggi, la risoluzione che mette definitivamente fuori legge le bombe a grappolo. Fra i promotori del processo di messa al bando, la Norvegia è stata la prima a firmare il documento che vieta la produzione, l’utilizzazione, lo stoccaggio e il commercio di armi e che, inoltre, obbliga i firmatari a aiutare i Paesi e le persone vittime delle bombe. Secondo a sottoscrivere l’accordo il Laos, il Paese più colpito al mondo da questi ordigni nel quale, fra il ‘64 e il ‘73, l’aviazione Usa scaricò 260 milioni di cluster bomb. “Il mondo oggi è un luogo più sicuro. Si tratta dell’accordo umanitario più importante dell’ultimo decennio”, ha dichiarato Richard Moyes, copresidente della Cmc, la Cluster Munition Coalition l’organizzazione creata nel 2007 che diede inizio al processo di messa al bando. Dichiarazioni entusiastiche, forse comprensibili ma non condivisibili, purtroppo. Perché dall’inizio del “processo”, nelle numerose tappe svoltesi in giro per il mondo, non è mai cambiata la posizione fermamente contraria al trattato dei maggiori Paesi produttori e utilizzatori. Da Oslo, quando la prima dichiarazione di impegno per la messa al bando delle “armi a sub munizioni cluster” fu sottoscritto da 47 Paesi su 49 presenti (tra cui l’Italia), si passò a Lima, con la partecipazione di altri 27 Paesi. Dopo un’altra tappa intermedia, quella di Vienna, si giunse Wellington, in Nuova Zelanda. Era il febbraio 2008, e già, con le prime defezioni e i primi distinguo, iniziava a delinearsi un’iniziativa destinata a rimanere zoppa. In realtà questioni di lana caprina utili a scampare la sottoscrizione dell’accordo. Difatti, nella cinque giorni neozelandese non si era giunti a nessuna dichiarazione comune dei 120 paesi riuniti e le speranze in un accordo minimo erano state rimandate a maggio, in Irlanda, quando avrebbero dovute partecipare anche potenze di maggior calibro allora assenti: Cina, Russia e Usa, i maggiori produttori di cluster bombs. Ma i tre Paesi boicottarono anche Dublino. Assenze che la dicevano lunga sulla possibilità che la mobilitazione potesse giungere a dei risultati concreti, visto che tra i 97 Stati che sottoscrissero tempo prima la Dichiarazione di Wellington, nella quale veniva confermato l’obiettivo dichiarato ad Oslo nel 2007, la maggior parte erano Paesi non produttori e di scarso peso diplomatico. D’altro canto, i Paesi che potevano avere un certo peso, Regno Unito, Giappone, Germania, Francia, e anche l’Italia, facevano il “doppio gioco”, manifestando da un lato la volontà di aderire alla convenzione, ma poi, dall’altro, sollevando continuamente obiezioni e limiti al bando assoluto delle armi a frammentazione. A Dublino, nel maggio scorso, non era cambiato nulla. In quei giorni fu la Gran Bretagna il principale ostacolo sulla strada di un accordo per la messa al bando totale. Difatti, secondo Londra, le M85 usate dall’artiglieria britannica, incluse nell’elenco delle armi da bandire secondo la Convenzione, sarebbero invece bombe “intelligenti” progettate per minimizzare i rischi di “danni collaterali” autodistruggendosi al contatto con il suolo. Opinione diversa da quella dell’Onu, che ricordava in quei giorni come almeno 300 civili fossero morti, nel 2007, nel Libano meridionale, a causa di questo tipo di munizioni largamente usate da Israele durante il conflitto dell’estate del 2006. Anche le M73, montate su razzi, e impiegate dagli Stati Uniti in Iraq, dove fanno quotidianamente numerose vittime, specie tra i bambini, dovrebbero far parte delle munizioni incriminate, ma secondo Londra la sua effettiva adesione alla una messa al bando totale avrebbe creato troppe difficoltà riguardo al destino delle munizioni immagazzinate nelle basi statunitensi nel Regno Unito e porrebbe problemi allo status legale dei militari britannici impiegati insieme a forze che ne facciano uso. Erano tutte obiezioni che servivano a giungere ad un compromesso. Londra, infatti, con sorpresa di molti, a Dublino aderì alla convenzione ma non prima che in questa venisse specificato che, in determinate circostanze, i Paesi firmatari potranno svolgere operazioni internazionali accanto a Paesi che non hanno partecipato al negoziato, una deroga che, ad esempio, solleverebbe la Gran Bretagna, e non solo, da qualunque responsabilità nel caso intervenga in conflitti al fianco di Washington, ipotesi tutt’altro che remota. Una scappatoia che, nei fatti, in tempi di “coalizioni di volenterosi”, toglie qualunque efficacia alla convenzione. Dopo aver respinto fin dall’inizio del “processo” qualunque ipotesi di adesione, gli Stati Uniti, assieme a Russia, Cina, Israele, India e Pakistan, si sono definitivamente chiamate fuori. Il dipartimento di stato Usa ha motivato la sua decisione affermando che “una proibizione delle bombe a grappolo formulata in maniera così generale metterà in pericolo le vite dei nostri uomini e delle nostre donne e quelle dei nostri partner nella coalizione”. Per le loro caratteristiche, le cluster bombs avrebbero potuto già essere annoverate tra le armi in contrasto con la Convenzione di Ginevra del 1949, che vieta l’uso di armi causa di attacchi indiscriminati, che cioè rischiano di colpire la popolazione civile. Un fatto che però non ha mai scoraggiato i Paesi possessori e utilizzatori che negli ultimi 40 anni le hanno impiegate causando centinaia di migliaia di morti in tutto il mondo. Il fatto che non fossero mai state esplicitamente proibite dalle leggi di guerra ha permesso che potessero essere largamente utilizzate visto che rispondono bene alle esigenze dei conflitti contemporanei: guerre che mirano a colpire la popolazione per fiaccarne la resistenza. Ma purtroppo anche l’esistenza di una convenzione ad hoc non servirà ad evitare che i principali utilizzatori delle cluster bomb, che non la hanno sottoscritta, continuino a mietere vittime.
|